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I gloriosi anni dell’Art Déco in mostra a Milano

L’Art Déco è stato uno dei momenti in cui le Arti applicate, dall’oreficeria all’ebanisteria fino alla pittura vascolare, hanno avuto il sopravvento sulle sorelle maggiori, come pittura e scultura. Questo fenomeno, diffusosi intorno alla fine degli anni ’10 e protrattosi per tutto il decennio successivo, è perfettamente analizzato dalla mostra ospitata nelle sale del piano nobile di Palazzo Reale di Milano. Curata da Valerio Terraroli, l’esposizione ci permette di osservare da vicino, dal 27 febbraio al 29 giugno 2025, lo sviluppo moderno delle Arti decorative, in particolar modo italiane ma anche francesi e austro-tedesche, in direzione di un loro affrancamento definitivo, figlio di quelle Arts & Crafts che William Morris tenne a battesimo circa quindici anni prima in Inghilterra, in piena temperie Liberty. Promossa dal Comune di Milano e prodotta da Palazzo Reale e 24 Ore Cultura, la mostra intende rappresentare, attraverso circa duecentocinquanta pezzi, quello che, giustamente, il titolo definisce come “Trionfo della Modernità”.

L’occasione della mostra è il centenario di quella grande esposizione universale tenutasi a Parigi nel 1925 che, proprio in virtù del suo sottolineare la volontà di rappresentare la potenza delle Arti decorative, diede il nome a questo movimento artistico, chiamato, appunto, “Stile 1925” o anche, più popolarmente, “Art Déco”. Tale fenomeno caratterizzò l’intero primo dopoguerra, ma si riverberò anche per tutti gli anni Trenta, anche al di fuori dell’Europa. La mostra pone un focus particolare sulle produzioni di Arte applicata italiana e francese, ma, specie nella lavorazione delle ceramiche e nella loro decorazione, pare evidente quanto l’Art Déco abbia gettato le basi per quel “made in Italy” oggi tanto decantato, ma spesso poco valorizzato. Grazie alla preziosa collaborazione con il Museo della Ceramica di Faenza, è possibile osservare da vicino pezzi rari in cui la fattura artistica si unisce a una raffinatezza creativa senza pari, che proietta l’Arte applicata nell’empireo, insieme alla pittura e alla scultura.

In fondo, l’Art Dèco è anche un movimento architettonico e la mostra prende le mosse da questo spunto, illustrandoci quanto la nostra amata Milano sia una città ricca di edifici caratterizzato da questa tendenza. E qui si evidenzia la prima premessa: il Dèco italiano è figlio del Liberty. Molti dei progetti definibili sotto questa etichetta nacquero come floreali, per, poi, svilupparsi in maniera diversa. Basti pensare alla Stazione Centrale, forse il più noto edificio Dèco di Milano, che venne progettato da Ulisse Stacchini, uno dei massimi architetti Liberty italiani, ma che, poi, complici le varie interruzioni, divenne, con gli anni ‘20, uno dei più riusciti esempi di Stile 1925 in Italia. E i casi, a Milano, si sprecano: Casa Berri Meregalli in Via Vivaio, di Giulio Ulisse Arata, è il simbolo di un’evoluzione fantastica ed evasiva dal Liberty al Dèco attraverso suggestioni medievaleggianti, così come suggestioni barocche si hanno nell’edificio sull’angolo tra le vie Mozart e Serbelloni. E profondamente Dèco, ma ancora ancorata al Liberty, è l’architettura di Casa Frisia in Via Gioberti. La genesi dal Liberty si evidenzia anche nella Pittura e nella Scultura. Basti pensare ai lavori di Galileo Chini, toscano di nascita, che, tra fine anni ‘10 e il decennio successivo, celebrò il passaggio tra le due tendenze in particolar modo nella decorazione dello stabilimento termale di Salsomaggiore, di cui è esposto un pannello preparatorio. Il Dèco iniziava a declinarsi come una variante di evasione dall’esuberanza floreale Liberty in direzione di un maggiore rigore formale ma anche di un decorativismo nuovo, non meno brioso del precedente, ma più orientato all’esotismo e, in vari casi, anche a una verve erotica celebrante l’apertura culturale dei primi anni ‘20 e la voglia di vivere e reagire dopo la Grande Guerra. Talvolta iperbolica, la nuova tendenza artistica non voleva, però dimenticare le sue radici, come evidenziato dai putti e dalle ghirlande di cui è ricco il pannello di Chini, che pare guardare anche agli esempi viennesi dei fregi di Klimt. Anche la Scultura sembra orientarsi sia ai modelli del secolo precedente che alle contemporanee innovazioni floreali e tardo-simboliste, come evidenziato dal bellissimo gruppo chiamato I Pargoli Cristiani, opera del 1919-20 di Adolfo Wildt, in cui le figure dei bambini paiono quasi spettri usciti da un dramma di Ibsen o da un quadro del contemporaneo Munch.

L’Esposizione del 1925 fu un punto di svolta, in quanto, a Parigi, parteciparono delegazioni di vari Paesi. La Francia si pose come arbitra del gusto internazionale, mentre l’Italia e l’Unione Sovietica poterono uscire dall’isolamento internazionale grazie alle opere di artisti di tutto rilievo. Per l’Italia parteciparono Chini e Wildt, ma spiccarono personalità nuove, come il veneziano Vittorio Zecchin per i suoi vetri, e, soprattutto, una figura destinata a diventare famosa come designer e architetto ma che, in questo caso, lavorò come decoratore: Giò Ponti. Le ceramiche decorate dal maestro milanese sono, sicuramente, rimandi al Mondo antico, specie nei formati che ricordano l’antica Grecia o la civiltà etrusca, ma sanno anche essere moderne nel taglio decorativo, con raffigurazioni femminili che sembrano ballare il foxtrot piuttosto che le danze rituali arcaiche. Le vedute architettoniche d’invenzione, autentici capricci moderni, sono un omaggio alle Città ideali del Rinascimento toscano e umbro ma anche innovative nel taglio distorto, quasi distopico e deformato, figlio delle avanguardie, in particolar modo del Futurismo e del Cubismo. E nel tocco leggero di pennello sulla ceramica si manifesta il genio creativo di Ponti, che anticipa le sue creazioni da architetto e designer.

In Francia, invece, il gusto déco si affermò come esaltazione del lusso e della gioia di vivere, sempre partendo dall’Art Nouveau, ma verso una maggiore esuberanza. Se l’austera vetrata con i cerbiatti di Pierre Petit sembra guardare al passato, il vasellame dell’epoca riabilita la Secessione viennese e l’ebanisteria sembra tornare alle boiseries del Settecento. La Scultura ornamentale, come provato dalla Isadora Duncan ritratta da Guiraud-Rivière, vede, come modello, il Simbolismo, tanto che la celebre ballerina pare una nuova Salomè. In questi ambienti lussuosi si muovono donne bellissime e dal fascino ambiguo, in fondo, un po’, femmes fatales di simbolista memoria. Il ritratto che meglio rappresenta questo modo di vedere è quello in cui Alberto Martini, pittore trevigiano che visse per anni a Parigi, ritrasse, proprio in quel fatidico 1925, Wally Toscanini, raffigurandola come una vera Dea degli anni ‘20: sguardo fisso e malizioso, la donna, avvolta nel suo elegante vestito alla moda, è pura sensualità e simbolo dell’Art Dèco internazionale.
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Alberto Martini, Wally Toscanini, 1925, Pastello su carta, 131 x 204 cm., Collezione privata 

L’Art Dèco fu anche tendenza di recupero del gusto per le raffigurazioni di animali, fantastici e reali, in cui gli artisti italiani e francesi poterono sbizzarrirsi in creazioni audaci, come il mosaico di Jouve e Gardin in cui una pantera divora un pitone. Anche l’attrazione per le antiche civiltà mesopotamiche fu una caratteristica di questi anni, come evidenziato da oggetti d’uso, specie vasi, a forma di ziggurat, ma anche dalla scultura da tavolo, opera di Le Faguays, in cui un fauno insegue una ninfa. Questo piccolo pezzo è un altro capolavoro Dèco, in quanto recupera il mito, ma lo attualizza nella sua concezione d’uso e, a livello estetico, lo fa spiccare per il rimando (soprattutto nei capelli della ninfa) alle linee orizzontali ondulate tipiche delle decorazioni assiro-babilonesi. Da segnalare che questa scultura appartenne a Gabriele d’Annunzio, che la usò nella sua villa di Gardone, oggi chiamata Vittoriale degli Italiani.

L’Art Dèco fu anche fascinazione (molto stereotipata) sia per l’Africa che per l’Oriente, come provato dalla bellissima danzatrice in cui Mario Dante Zoi mescola differenti tipi di marmo per rendere l’idea del ballo sensuale. Molte sono le danzatrici e le odalische ritratte in questo periodo, ma anche l’identificazione panica tra Uomo e Natura condusse alla rivalutazione del mito di Diana, evidente sia nella figura ritratta da Anne Carlu, seducente e selvaggia, così come nelle Amazzoni di Giò Ponti, che sembrano ballerine in un locale, piuttosto che guerriere. Dello stesso Ponti sono le ceramiche, eseguite per la Richard-Ginori, in cui mescola elemento sensuale della bellezza femminile, figlio della lezione preraffaellita, della Secessione e del Liberty, a suggestioni rinascimentali e manieristiche nelle architetture che incorniciano i soggetti.

Nell’arco di pochi anni, però, l’Art Dèco iniziò a declinare. L’ultima gloria di questo periodo fu il centrotavola in ceramica eseguito da Giò Ponti e Tommaso Buzzi per l’ambasciata italiana a Parigi nel 1927. Si tratta di una grandiosa rivisitazione delle fontane che caratterizzano i giardini all’italiana dei palazzi reali della Penisola e di mezza Europa, in cui la suggestione barocca e rococò di un decorativismo sfrenato ed esuberante sembra già essere l’ultimo bagliore dei fuochi d’artificio di una stagione ruggente che, sulla spinta di differenti tendenze stilistiche, stava venendo meno. In Italia e in tutta Europa, infatti, con gli anni ‘30, si affermò, lo stile Novecento, basato su una monumentalità figlia del ritorno all’ordine ma anche del richiamo alla classicità evidente, soprattutto, nell’Italia fascista. Il brio creativo del Dèco venne sostituito da uno stile più rigoroso e geometrico, anche nelle arti applicate, colpite duramente, in Italia, dall’autarchia imposta dal fascismo, che bloccava la loro linfa vitale, ovvero l’utilizzo di pietre preziose e materie rare provenienti da altri Paesi. Giovi, però sottolineare come l’Art Dèco, però, ebbe una sua continuazione oltreoceano, negli Stati Uniti: negli anni ‘30, maestranze italiane e francesi, emigrarono negli States, contribuendo alla continuazione di questo filo rosso che nasce dal Liberty e sfocia nelle tendenze neodecorative degli anni ‘50. La prova migliore di ciò sono due edifici che tutti noi conosciamo, in quanto simboli di Manhattan: il Chrysler e l’Empire State Building, due tra i più noti grattacieli del Mondo, sono, a tutti gli effetti, opere Dèco, che segnano il passaggio di questa tendenza, da un continente a un altro, mantenendola in vita ancora per un decennio.

Art Dèco. Il trionfo della Modernità
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
Orari: lunedì chiuso; martedì-mercoledì-venerdì-sabato-domenica 10.00-19.30; giovedì 10.00-22.30
Biglietti: intero 15,00 €; ridotto da 13,00 a 10,00 €
Info: www.mostraartdeco.it

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