Il Realismo di Giuseppe Pellizza da Volpedo in mostra alla GAM di Milano
A più di un secolo dall’ultima esposizione milanese alla Galleria Pesaro, Giuseppe Pellizza da Volpedo ritorna a essere protagonista di una grande mostra nella nostra città.
Alla Galleria d’Arte Moderna di via Palestro, dal 26 settembre 2025 al 25 gennaio 2026, è possibile osservare da vicino una raccolta di opere che riassumono perfettamente la vita, la carriera e lo stile del pittore piemontese, uno dei massimi esponenti del realismo italiano della fine del XIX secolo. Curata da Aurora Scotti e Paola Zatti, la mostra, non a caso, si intitola Capolavori, in quanto raccoglie, in poche sale, l’evoluzione di un artista tanto iconico quanto poco studiato per decenni e la cui fama si è spesso fermata all’opera che lo ha consacrato, ovvero Il Quarto Stato. Attraverso quaranta opere, tra dipinti e disegni eseguiti nella breve vita di Pellizza, la mostra ha il pregio di farci scoprire ciò che sta a monte del Quarto Stato e anche quello che è venuto dopo il suo capolavoro più famoso: si tratta di un viaggio in un’evoluzione stilistica che parte dal realismo, tocca il divisionismo e il simbolismo e approda all’opera più celebre, che sintetizza queste tendenze. Giuseppe Pellizza da Volpedo nacque nel 1868 nel piccolo paese, vicino a Tortona, da cui prese il nome e a cui restò sempre legato, tanto da ritornarvi dopo l’apprendistato e da stabilirvisi, con moglie e figli, fino alla morte, avvenuta nel 1907 per suicidio, dopo la tragica scomparsa, in pochi mesi, della consorte e del padre. Pellizza ebbe un talento naturale nel disegno sin da bambino e i genitori se ne accorsero, riuscendo a mandarlo a Milano, nel 1884, a studiare a Brera, dove seguì i corsi di Giuseppe Puricelli. Il pregio della mostra è proprio questa esplorazione degli anni della formazione del giovane Giuseppe, tra Milano, Roma, Firenze e Bergamo. A Roma, il pittore iniziò a manifestare insofferenza per l’ambiente accademico, preferendo osservare da vicino le opere antiche e rinascimentali della Capitale. Nel 1888, Pellizza girò tra Firenze, dove conobbe Giovanni Fattori, seguendone i corsi, e Bergamo, dove frequentò l’Accademia Carrara ed ebbe, come maestro, Cesare Tallone. Dopo queste vicende si stabilì definitivamente a Volpedo, mantenendo rapporti con artisti del calibro di Giovanni Segantini e, in virtù delle comuni origini alessandrine, Angelo Morbelli, ma svolgendo anche piccoli viaggi di approfondimento del suo stile naturalistico tra Roma, Napoli e Torino. Senza queste esperienze, Giuseppe Pellizza da Volpedo non sarebbe stato il Pellizza che conosciamo. Se a Roma ebbe modo di osservare da vicino l’antichità, nel suo paese, intorno al focolare domestico e a contatto con l’ambiente contadino e agreste delle colline della Valle del Curone, poté sviluppare una pittura naturalistica con forti venature sociali e realiste, basata sull’osservazione diretta del soggetto e sullo studio en plein air.
Non a caso, la mostra si apre con una sezione dedicata alla formazione del pittore, in quell’ambito accademico da lui tanto osteggiato ma che gli offrì stimoli significativi. Ciò avvenne particolarmente a Firenze, a contatto con Fattori, ma anche a Bergamo, con quel Cesare Tallone che gli permise di studiare la figura sperimentando l’uso di un nuovo mezzo giunto da poco dalla Francia: la fotografia. Nascono così opere come il Ritratto di Santina Negri, conosciuto con il sottotitolo Ricordo di un dolore, ma anche il bellissimo Teschio (1886), che risente di tutta la tradizione pittorica del Seicento, dai caravaggeschi ai classicisti emiliani, basata sul concetto di “memento mori” e sulla caducità della vita. Pellizza fu anche un pioniere del divisionismo, specie nel biennio 1892-94, in cui l’artista unì l’osservazione diretta della natura all’utilizzo del grande formato orizzontale che sarebbe poi sfociato nel Quarto Stato. Lo stile scelto fu quello della pittura a puntini, elaborata dagli esempi post-impressionisti francesi di Signac e Seurat. In questo periodo vennero alla luce opere in cui soggetto, natura e campagna si fusero in un unico amalgama, particolarmente apprezzato dai grandi teorici del divisionismo, in primis gli amici Segantini e Morbelli, e successivamente anche da Gaetano Previati. Parliamo di dipinti come Il fienile oppure Speranze deluse, in cui i puntini si delineano in un reticolato di linee irregolari e sinuose che, attraverso colori primari, paiono quasi voler descrivere realisticamente la materia. Il Pellizza divisionista è un pittore realisticamente descrittivo, con un tocco poetico che è sia racconto sia denuncia delle difficili condizioni dei contadini dell’epoca, secondo una convinzione che sfocerà nel Quarto Stato.
Deluso dallo scarso successo dell’esperienza divisionista presso la critica, a Roma e a Firenze, il giovane Pellizza si buttò a capofitto nella tendenza simbolista, che, tra gli ultimi anni del XIX e i primi del XX, permeò l’arte di tutta Europa. Grazie allo stimolante ambiente fiorentino, in cui pubblicò anche uno scritto sulla propria pittura sulla rivista Il Marzocco, nei primi anni del Novecento Pellizza lavorò a opere innovative sia per il formato, orizzontale o a polittico (riprendendo modelli del passato), sia per le tematiche legate agli stati d’animo, di ricordo romantico. Prove di questa fase pittorica sono opere come Fiore reciso (1902) o il trittico L’Amore nella Vita, che raffigura il tema delle tre età, elaborato negli stessi anni anche da Klimt. Se il pannello centrale, a formato circolare, nei due bambini abbracciati, ricorda lo stile di Ranzoni e Cremona, quello sinistro, per la pennellata rapida e i colori tenui, è marcatamente divisionista. Degna di nota è anche Lo Specchio della Vita, in cui, in formato orizzontale, vediamo un gregge di pecore al pascolo su un paesaggio paludoso che è un omaggio alla lezione di Fattori e dei Macchiaioli. In quest’ultima opera, il simbolo (le pecore al pascolo) rappresenta l’essenza più profonda della pittura di Pellizza: il rapporto tra uomo e natura, attraverso una ricerca cromatica in cui dai colori deriva la luce che inonda la scena.
Nei suoi ultimi anni, dopo aver elaborato il Quarto Stato, Pellizza si dedicò intensamente all’osservazione diretta del sole, fonte luminosa naturale ma anche, di nuovo in chiave simbolista, fonte di vita. Il risultato è la grande tela del 1904, proveniente dalla Galleria d’Arte Moderna di Roma, con cui il pittore studiò l’astro valorizzandone i valori ottici e osservandone la potenza dal vero. Ne nacque un’opera grandiosa, che raffigura il sole che sorge, all’alba, sopra le colline della Valle del Curone: una celebrazione della sua potenza naturale e della sua valenza simbolica di generatore del flusso vitale.
Parallelamente al Quarto Stato, Giuseppe Pellizza da Volpedo lavorò spesso, tra fine ’800 e primi ’900, a soggetti ispirati al mondo operaio, frutto delle sue costanti attenzioni al contesto sociale del suo paese e della vicina Tortona. Perfetta sintesi di questa tendenza sono dipinti come Il ponte ed Emigranti. Nel primo, del 1904, ispirato alle figure dei trasportatori di pietre che risalivano il greto del Curone, la tecnica divisionista si fonde con il valore simbolista del ponte, emblema delle disparità sociali ma anche dell’unione tra genitori e figli. La luce è quella tenue del crepuscolo, che illumina la catena alpina sullo sfondo, omaggio a Segantini e alle sue opere del periodo in Engadina. Il secondo è un altro riferimento al mondo operaio, con un’intensa raffigurazione di una famiglia povera che riposa mentre cammina sul greto del Curone, colta in un momento di immobilità e di quiete, sempre alla luce del crepuscolo, in un paesaggio dominato dalle montagne (nuovo omaggio a Segantini). Il titolo di quest’opera, da Emigranti, cambiò, nella versione finale, in Membra stanche, con palese riferimento al lavoro operaio in fabbrica o dei contadini nei campi.

Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, 1898-1901 circa, olio su tela, 283 x 550 cm, Copyright Comune di Milano - tutti i diritti riservati - Milano, Galleria d’Arte Moderna - foto di Luca Carrà
E, alla fine, il Quarto Stato. La monumentale tela, nella sua versione finale, è esposta proprio alla Galleria d’Arte Moderna, al piano superiore, nel salone colonnato. Ed è qui che la mostra si conclude, con un logico percorso verso il massimo capolavoro di Pellizza. Il Quarto Stato non è solo un dipinto, ma un’icona e un vero manifesto, con la sua carica simbolica che evoca il mondo operaio in marcia verso un avvenire migliore. Si potrebbe dire che questo dipinto sia il simbolo del mondo operaio e delle sue lotte per ottenere salari dignitosi e diritti. L’idea, a Pellizza, venne già nel 1892, quando, nella piazza di Volpedo, rimase colpito dalla protesta di un gruppo di lavoratori. L’artista vi lavorò, attraverso quattro differenti versioni, fino al 1902. La scena, com’è noto, rappresenta quella protesta: la marcia, realistica nell’incedere delle figure verso l’osservatore, allude anche a un cammino verso un futuro migliore, figlio dell’unione degli scioperanti ma anche della dignità del lavoro. Il titolo è riferito agli scritti di Jean Jaurès e l’opera giunge, nella sua versione finale, dopo tre dipinti preparatori che assumono il valore di opere autonome: Ambasciatori della fame (1892), Fiumana (1895) e Il cammino dei lavoratori (1899). Rimasto invenduto, nel 1920, durante il Biennio Rosso, giunse a Milano alla Galleria Pesaro. Il pubblico ne rimase talmente colpito da richiederne l’acquisto alla municipalità, che alla fine lo collocò prima al Castello e poi nella sede attuale. Successivamente, dopo la Seconda guerra mondiale, fu esposto a Palazzo Marino come simbolo della democrazia e della libertà restituita dopo la dittatura fascista e, poi, dal 2010 al 2022, all’interno del Museo del Novecento in piazza Duomo. L’opera venne anche scelta da Bernardo Bertolucci, nel 1979, come incipit del suo film Novecento. Il Quarto Stato è un’icona ma anche un dipinto in cui confluiscono uno studio raffinato, con cartoni preparatori poi trasferiti sulla tela (per i quali fece posare compaesani e familiari), e una tradizione illustre, specie nel riferimento alla Scuola di Atene di Raffaello e, nella gestualità e nell’incedere, a Michelangelo. La tecnica è stupefacente: sono sottili linee di colore puro, stese con pennellate filamentose; i colori non sono mai mescolati sulla tavolozza, affinché la sintesi cromatica avvenga nell’occhio dell’osservatore.
Giuseppe Pellizza da Volpedo. I capolavori
Galleria d’Arte Moderna, via Palestro 16, Milano
Orari: lunedì chiuso; martedì-domenica 10.00-19.00; giovedì 10.00-21.00
Biglietti: intero 14,00 €, ridotto 12,00 €
Info: https://www.gam-milano.com/mostre/200/pellizza-da-volpedo-i-capolavori
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