Man Ray: “Forme di luce” a Palazzo Reale, Milano 2025–26
Un altro pilastro del Surrealismo internazionale è il protagonista di una delle mostre autunnali di Palazzo Reale a Milano.
Al genio di Man Ray è dedicata la retrospettiva che, dal 24 settembre 2025 al 11 gennaio 2026, nelle sale a pian terreno, a ridosso del Museo del Novecento, attraverso circa trecento opere tra fotografie e disegni, ci illustra l’immaginario di uno dei massimi esponenti della corrente surrealista. La mostra, curata da Pierre-Yves Butzbach e Robert Rocca, si colloca in parallelo con quella, ospitata nei locali contigui, dedicata a Leonora Carrington e prosegue un filo rosso iniziato con quella su Leonor Fini. Promossa da Comune di Milano, Palazzo Reale e Silvana Editoriale, l’esposizione rappresenta al meglio lo stile di un artista che, tra ironia, irriverenza, libertà e voglia di evadere dai canoni tradizionali, esattamente come tutti i suoi compagni di viaggio surrealisti, ha fatto della provocazione una bandiera.
Man Ray nacque nel 1890 a Philadelphia, con il nome di Emmanuel Radnitzky, da una famiglia ebraica di origini russe. Talento precoce, sin da ragazzo alternò alla pittura e al disegno, l’assemblaggio di oggetti e la sovrapposizione di svariate forme, elementi che erano la base del Dadaismo. Non a caso, già negli anni ‘10, iniziò a essere attratto dalle opere di Duchamp e dagli scritti di Tzara. Decise, per questo, di cambiare il proprio nome con lo pseudonimo Man Ray: Man era il diminutivo con cui veniva chiamato da bambino, mentre Ray indica proprio quel raggio di luce che sarebbe diventato il suo marchio di fabbrica. Nel 1921 si trasferì a Parigi, dove entrò in contatto con l’ambiente Surrealista di Andrè Breton (e dove conobbe, tra le altre, anche la Carrington e la Fini). A Parigi strinse amicizia con vari artisti e iniziò a frequentare la modella Kikì de Montparnasse, che sarebbe divenuta sua compagna e musa, ma intraprese anche quella tecnica che sarebbe diventata, insieme al suo spirito libero e provocatorio, il tratto fondante della sua opera: un fascio di luce che genera forme, movimenti e che modella i corpi, delineandone silhouette ed esaltandone il dettaglio. Tutto ciò fu reso possibile dalla tecnica della rayografia, di cui lui, riprendendo le ricerche di Tzara, sarebbe divenuto il massimo esponente. Mettendo un oggetto su carta fotosensibile senza l’uso della macchina fotografica, questa tecnica permise all’artista di creare nuove forme, appunto le “Forme di luce” del titolo della mostra, tra sperimentazione, poesia e la costante provocazione tipica del suo modus operandi artistico. La sua ricerca si affinò tra la fine degli anni ‘20 e l’inizio del decennio successivo, con la nuova compagna, la fotografa Lee Miller, con la tecnica della solarizzazione, grazie alla quale, esponendo parzialmente l’oggetto durante la fase di sviluppo, le forme assumevano un aura spettrale e misteriosa. Gli anni ‘30 furono, per Man Ray, anni di lavoro come fotografo di moda, ma anche di varie relazioni sentimentali ed erotiche, tra cui quella con l’artista Meret Oppenheim. Con la Seconda Guerra Mondiale, tornò negli Stati Uniti, dove conobbe la ballerina Juliet Browner, che sarebbe divenuta sua moglie. I due tornarono a Parigi nel 1951, dove Man Ray avrebbe lavorato ininterrottamente, tra fotografie e disegni, fino alla morte, nel 1976.
Man Ray è tecnica, è gioco con una luce che plasma e modella, ma è anche irriverenza e ironia. Senza di lui, probabilmente, non sarebbero esistiti grandi fotografi come Richard Avedon o Helmut Newton. Le Forme di luce sono una creazione nuova, sì, figlia del Surrealismo, ma anche ancorata ai tempi che l’artista visse. Una luce che non è generatrice, ma creatrice. In fondo, la luce di Man Ray è un po’ come quella di Caravaggio, fonte luminosa misteriosa ma reale e in grado di plasmare e modellare figure e ambienti. E la mostra ci illustra proprio questo, attraverso sezioni non prettamente cronologiche ma tematiche, a partire da quella dedicata agli autoritratti. Per lui, questa tipologia diventa gioco e volontà di scardinare gli schemi, riprendendo una tradizione che, dai grandi maestri del Rinascimento, arriva fino a Picasso e ai contemporanei cubisti, ma sovvertendola, attraverso ironiche raffigurazioni, in cui ci appare vestito da prete o con la barba rasata a metà, che illustrano un immaginario, sospeso tra realtà e immaginazione, in cui l’artista si identifica per come vorrebbe essere.
Man Ray non ritrasse solo se stesso, ma anche i vari amici artisti che conobbe a Parigi. Già a partire dal 1922, quando intraprese la serie di ritratti fotografici degli intellettuali da lui frequentati, con una tecnica innovativa già proiettata alla rayografia, proprio quei soggetti da lui immortalati apprezzarono il suo stile diretto e libero, creativamente giocoso ma realistico. Nacque così una carriera da ritrattista che sarebbe proseguita fino alla morte dell’artista: capolavoro di questa fase è la Scacchiera Surrealista, in cui, nel 1932, unì i vari ritratti degli esponenti della corrente, rimpicciolendoli e tagliandoli a mezzo busto, in formato quadrato, in modo che, una volta uniti, potessero configurarsi, a forma di scacchiera, come il simbolo di un movimento, un manifesto non scritto ma per immagini, quasi precursore dei moderni album di figurine. Altro capolavoro dello stesso anno è Lacrime, che nasce come fotografia pubblicitaria per un marchio di mascara ma che, poi, divenne opera d’Arte grazie al genio dell’artista, che pose, sul viso della modella, piccole perle di glicerina che simulavano lacrime: in camera oscura, Man Ray ingrandì il soggetto, soffermandosi sul viso, per poi isolare gli occhi imperlati. Forse, si tratta dell’opera più tecnicamente riuscita dell’artista, per l’ironia ma anche per la tecnica di ingrandimento e per la simulazione delle lacrime.
Man Ray, Larmes 1932 © Man Ray 2015 Trust, by SIAE 2025 Image: Telimage, Paris
Grande peso, per Man Ray, ebbero le varie donne che frequentò nel corso della sua vita. A ognuna di loro è dedicata una microsezione della mostra. La prima è dedicata a quella Alice Prin, meglio nota come Kikì de Montparnasse, sua musa, che gli ispirò opere legate a un artista da lui tanto amato, Jean-Auguste-Dominique Ingres. Se, nella foto del 1921, la modella posa nuda seguendo le istruzioni dell’artista, ispirandosi alla Sorgente del pittore ottocentesco, è con Le Violon d’Ingres, del 1924, che Man Ray raggiunse risultati sorprendenti. La foto è una manifesto surrealista, ancora oggi molto apprezzato, che si ispira al Bagno Turco di Ingres nella posa di Kikì, ma è anche un gioco di luce ottenuto isolando lo sfondo per soffermarsi sul corpo femminile, che viene paragonato, con i due fori eseguiti con la mina e l’inchiostro direttamente sulla stampa, a un violoncello, per esaltarne la bellezza ma anche per sottolineare la sua passione per la bella Kikì, giocando con un detto francese che allude a un hobby coltivato con dedizione. Anche la fotografa americana Lee Miller ebbe un peso sulla produzione di Man Ray, grazie a una serie di ritratti, esaltanti la sua straordinaria sensualità, ottenuti con la solarizzazione: contorni ben delineati che separano le zone oscure da quelle luminose creano un alone che conferisce un tocco surreale e onirico all’immagine. Altra figura importante fu Meret Oppenheim, artista tedesca che, con il suo fascino androgino, colpì vari artisti surrealisti. Man Ray la scelse come soggetto della sua serie Érotique-Voilée, del 1933, raffigurandola, dapprima, in una foto iconica, nuda dietro a un torchio, con il braccio sinistro coperto d’inchiostro, e, poi, in altri soggetti in cui la donna rivendicò, orgogliosamente e in maniera rivoluzionaria, il suo ruolo di artista completamente smarcato da quello di modella.
La rayografia fu, per Man Ray, un terreno di sperimentazione: una notte, lavorando in camera oscura, si accorse che, sotto la luce, le forme degli oggetti si imprimevano sulla carta, dando vita a immagini strane, in linea con l’immaginario surrealista. Sperimentando, nacquero opere significative, apprezzate anche da Tzara, che iniziarono a essere chiamate rayografie e che raggiunsero vette tecniche e poetiche mai raggiunte prima di allora, visto anche il lavoro, con le stesse tecniche, sia dello stesso Tzara che del tedesco Christian Schad. La rayografia è voglia di andare oltre l’oggettività dello scatto fotografico, in direzione di un astrattismo istantaneo che coglie l’attimo esaltando un oggetto che prende vita e assume forme insolite e surreali.
Degna di nota, infine, è la passione di Man Ray per il Cinema, con una carriera racchiusa nei primi anni parigini, tra il 1923 e il ‘29. Fu regista di quattro film, ma partecipò anche alla realizzazione di piccoli corti realizzati dagli amici Leger e Duchamp. Il suo capolavoro cinematografico è sicuramente Emak Bakia, del 1926, realizzato, non a caso, nei pressi di Biarritz. Perché non a caso? L’espressione che dà il titolo al film è in lingua basca e significa “lasciatemi in pace”. E Biarritz, per chi non fosse così ferrato in Geografia, si trova nei Paesi Baschi francesi. Il film, che dura diciassette minuti, è surrealista nella scelta dell’improvvisazione più totale e radicale, libera e senza schemi come la fotografia del suo regista, provocatorio anche nell’assenza di una narrazione logica. Man Ray può collocarsi, al pari dell’altro grande regista surrealista, lo spagnolo Luis Buñuel, come il simbolo della Cinematografia di quest’Avanguardia artistica.
Man Ray. Forme di luce
Palazzo Reale, Piazza Duomo 12, Milano
Orari: lunedì chiuso; martedì – domenica 10.00 – 19.30; giovedì 10.00-22.30
Biglietti: intero 15,00 €, ridotto 13,00 €
Info: https://www.palazzorealemilano.it/mostre/forme-di-luce
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