Munch e la Pittura dei ricordi in mostra a Milano
Dopo quarant'anni dall’ultima mostra, Edvard Munch torna a essere il grande protagonista di un’esposizione a Milano. Dal 14 settembre 2024 al 26 gennaio 2025, presso le sale del piano terreno di Palazzo Reale, saranno ospitate circa cento opere del pittore norvegese, divenuto uno dei simboli dell'Arte del Novecento. Curata da Patricia G. Berman, in collaborazione con il noto critico Costantino D’Orazio, e promossa dal Comune di Milano, la mostra prevede una partnership con l’Ambasciata norvegese in Italia e con il Museo Munch di Oslo, da cui arriva l’intero corpus di dipinti del maestro.
Edvard Munch (1863-1944) è stato un artista la cui vita, soprattutto nella sua prima parte, è stata segnata da lutti familiari che hanno profondamente condizionato la sua opera. Le scomparse dei genitori e della sorella influenzano una drammaticità evidente nel suo lavoro, strettamente legata agli sviluppi delle dinamiche letterarie, filosofiche e scientifiche dell’epoca. Anche le tormentate relazioni sentimentali, da Tulla Larsen a Eva Mudocci, contribuiscono a evidenziare come l’Arte di Munch diventi una sorta di catarsi esistenziale e personale, una rielaborazione artistica di eventi traumatici.
Durante i suoi oltre ottant’anni di vita, Munch ha conosciuto le grandi avanguardie artistiche del Novecento, ma anche le trasformazioni estetiche dell'ultimo XIX secolo. I suoi soggiorni a Parigi e Berlino lo indirizzano verso il Simbolismo e il Jugendstil, ma Munch rimane sempre un "battitore libero", influenzato dalle tendenze contemporanee senza mai aderire completamente a un movimento specifico.
Molti tendono a considerare Munch un espressionista, associandolo ai maestri austriaci Schiele e Kokoschka. Tuttavia, Munch non si può definire un vero espressionista. Pur anticipando alcune tendenze del movimento e frequentandone i protagonisti a Berlino, la sua arte è frutto di una sintesi di molteplici influenze, più che semplice espressione di uno stato d'animo. Il sottotitolo della mostra, Il grido interiore, richiama la sua opera più celebre, L’Urlo, e simboleggia l'inquietudine che Munch ha vissuto e trasposto sulla tela, legata sia alle sue esperienze biografiche sia a un desiderio di rappresentare il ricordo in una chiave psicoanalitica, vicina alle teorie di Jung e Freud.
Munch, fondamentalmente, è un cantore del ricordo, inteso non solo come memoria, ma come rielaborazione emotiva del vissuto. La sua arte riflette il ciclo completo della vita, in un continuo dialogo tra inquietudine psicologica, instabilità dell’Eros e le forze invisibili che governano l'Universo. È stato anche un pioniere nella promozione delle proprie opere, curando personalmente le sue mostre e donando, alla sua morte, l’intero corpus alla città di Oslo.
Edvard Munch, Madonna, 1895-1902, Litografia stampata a colori, 60,5x44,3 cmPhoto © Munchmuseet
Le Prime Opere e le Influenze Bohemien
La mostra inizia con le prime opere giovanili di Munch, fortemente influenzate dal circolo bohemien di Kristiania. In questo ambiente, Munch entra in contatto con ideali libertari e progressisti, rifiutando le convenzioni sociali, mentre si confronta con il dolore della perdita dei genitori. In questi lavori emerge già una preferenza per immagini e colori non naturalistici, che riflettono le emozioni del pittore. Malinconia (1900) è un esempio perfetto di come Munch inizi a trattare il tema del ricordo, trasformandolo in un'esperienza emotiva trasposta attraverso blocchi di colore e prospettive insolite.
Per Munch, l’Arte è la trasposizione dei Ricordi condotti tramite le emozioni e l’uso di colori non naturalistici. Questo è l’elemento più importante della sua rivoluzione, che anticipa non solo l’Espressionismo, ma anche il Futurismo. Notevole peso, in questa prima fase, hanno anche i rapporti con alcuni amici, tra cui due drammaturghi nordici conosciuti a Berlino, Henrik Ibsen e August Strindberg, che ne segnano la produzione artistica. Munch, nel suo essere inquieto, si sente parte di uno dei drammi borghesi di Ibsen, e anche la presenza costante di figure simili a spettri e fantasmi è indissolubilmente legata all’amicizia con il drammaturgo, suggellata dall’esecuzuone di scenografie per un suo dramma a Berlino. Grazie a ciò, l’Arte di Edvard comincia a configurarsi come un “contenuto manifesto” dei Ricordi, come evidenziato da opere come Morte nella stanza della malata o anche quel grande progetto, rimasto incompiuto, chiamato Fregio della Vita. Il pittore norvegese riesce a essere rivoluzionario nella costruzione scenica delle sue opere, in cui lo spazio rappresentato si stacca dal tema descritto, legato alla soggettività dell’artista, per mettersi al servizio dello spettatore, spezzando la prospettiva classica per esprimere la sua inquietudine esistenziale. Iniziano, inoltre, ad apparire, nelle sue opere, dei volti che ci guardano direttamente, in primo piano, e che si prendono la scena, quasi rubando spazio a ciò che accade sul fondo e trascinando l’osservatore nel vortice emozionale del pittore con l'obiettivo di coinvolgerlo nella sua sfera interiore. Basti pensare, di nuovo, a Morte nella stanza della Malata (1893), in cui emerge un curioso ritratto di famiglia all’interno di una stanza di una moribonda, palese allusione ai lutti subiti negli anni precedenti, in cui la figura in primo piano (forse una delle sorelle) si staglia come un fantasma simile agli Spettri di Ibsen guardandoci con i suoi occhi intensi, ma anche a opere come Visione (1892), in cui prende spazio l’Inconscio su un substrato stilistico legato al Simbolismo di Redon e Moreau conosciuto a Parigi.
La mostra, indubbiamente, ha il pregio di farci scoprire il mondo che esiste al di là di quell’opera che ha reso Edvard Munch famoso in tutto il Mondo, ovvero L’Urlo. Si tratta di un’opera conosciuta anche da chi, di Arte, se ne intende poco o nulla, visto che è stata trasformata in un emoticon che tutti noi usiamo spesso nelle chat di Whatsapp o Messenger. Ne esistono svariate versioni, la prima delle quali del 1893, ed è la chiara espressione di una figura mummificata dall’inquietudine che cerca di esprimere il proprio disagio. L’opera, drammatica nel movimento delle pennellate e della prospettiva distopica, è volontà di farci sentire l’urlo non tanto con la voce, quanto con l’espressione e con quanto sta attorno, e di renderci partecipi dell’atmosfera. L’urlo è, a tutti gli effetti, un grido interiore, non sentito ma percepito attraverso le vibrazioni cromatiche ed espressive.
A monte dell’Urlo, però, esiste una ricerca interiore, una rielaborazione di ricordi e di esperienze personali, ma anche il grande rapporto di Munch con le donne. Le sue vicende sentimentali ed erotiche sono state sempre abbastanza burrascose e, indubbiamente, figlie della sua inquietudine esistenziale e del suo disagio psicologico che lo avrebbe condotto in cura dal dottor Jakobson a Copenaghen. Le opere a tema femminile dell’artista sono un po’ come Giano, quella divinità romana dai due volti: da un lato espressione di bellezza e di potenza della donna, dall’altro simboli di femmes fatales che uniscono i due elementi freudiani di Eros e Thanatos. Vista l’importanza del Ricordo, Munch dà molto spazio alla Sessualità, anche se la configura come una guerra tra sessi, in linea, specie nelle produzioni giovanili, con alcune dichiarazioni misogine dell’amico Strindberg, evidenziate in alcune delle versioni del Bacio. Alla prima tendenza, che vede la donna come potenza generatrice e come fonte di bellezza, appartengono opere come Donna (Sfinge) del 1894, in cui la figura in primo piano ricorda molto da vicino la Nuda Veritas dipinta, proprio in quegli anni, da Klimt. Obiettivo di Munch, da buon uomo di fine ‘800 – inizio ‘900, è quello di esaltare le sensazioni fisiche e psichiche che scaturiscono dall’esperienza amorosa ed erotica, come provato dalla scelta, nella versione a stampa del Bacio, di collocare i due amanti sospesi al di fuori di un tempo e uno spazio tangibile, ma anche dalla meravigliosa Madonna, del 1895-1902, in cui (non inganni il titolo!) abbiamo una visione totalmente laica del fenomeno dell’estasi erotica che, di lì a poco, sarebbe stato esplorato dal Surrealismo. La figura femminile, raffigurata nel suo candore, è colta in un momento di abbandono estatico, circondata da una cornice in cui appaiono spermatozoi e un piccolo embrione sulla sinistra, che rimandano al tema della fertilità. In questo, forte è il legame con la nascente grafica Liberty e con il tardo simbolismo, specie con quello inglese di Aubrey Beardsley. Il rapporto con le donne, però, come evidenziato poco fa, ha anche sviluppi negativi, come provato da Arpia (1899), prova grafica per una scenografia destinata a Strindberg, in cui la donna appare malvagia e pericolosa, che sovrasta l’elemento maschile fino a proiettarsi nella rappresentazione mitologica del tema, così come in Vampiro (1896), opera destinata al Fregio della Vita, in cui si configura un dominio femminile sulla fragilità maschile. L’esperienza erotica segna anche quelle rappresentazioni del tema della gelosia in cui appare un volto in primo piano, ennesima proiezione dello stato d’animo di Munch, e alle spalle un incontro amoroso. Il pittore vuole, brutalmente, sbatterci in faccia ciò che si prova quando si è gelosi, attraverso una proiezione, in primo piano, di qualcosa che accade nella mente individuale, evidente nella scena sul fondo. Appare, in questo momento, anche la figura della violinista inglese Eva Mudocci, amante di Munch, che ha modo di ritrarla come femme fatale a cavallo tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento: è questo il senso della Salomè, del 1903, in cui è fortissima l’eco della produzione dei Simbolisti francesi. È, però, con Tulla Larsen che il vortice sentimentale ed esistenziale di Munch raggiunge il culmine: di questa ragazza, Edvard se ne innamora, tanto da volerla sposare, ma traversie varie fanno naufragare il tutto. E, per il pittore, è un secondo trauma, da cui scaturiscono opere fortemente drammatiche e psicanalitiche, aventi, come trait-d-union, l’omicidio dell’uomo da parte della donna, che torna a essere malvagia e fatale, fino al gesto estremo: questo è il senso di opere come La Morte di Marat (1907), rielaborazione della più celebre opera di Jacques-Louis David, in cui, però, Munch sovrappone i suoi ricordi e sensazioni al tema storico.
Grande è stato anche il rapporto di Munch con l’Italia e con la sua Arte. Il suo primo viaggio nel 1899 è segnato dal burrascoso rapporto con Tulla, ma anche dalla scoperta dei tesori di Firenze, Roma e Milano, a cui dovrà una nuova fase che, specie nella Pittura monumentale, ma anche in quella di paesaggio, si rifarà al Rinascimento toscano. Se nel secondo viaggio visita più il Nord, con un focus su Milano, nel 1927 si reca a Roma, dove ha modo di visitare, nel cimitero del Verano, la tomba dello zio P.A. Munch, uno dei primissimi studiosi non cattolici ad accedere agli archivi vaticani. Da questa esperienza trae linfa vitale per la sua produzione successiva, in particolar modo per i paesaggi e le scene all’aria aperta, con una tavolozza chiara e intensa, figlia anche della lezione di Gauguin e dell’attrazione dello stesso artista per la Natura del Nord, tra foreste e laghi, unita a un focus per le discipline omeopatiche e il vitalismo, corrente filosofico-scientifica legata a Nietzche e a Haeckel che prevede pratiche come nudismo, esercizio fisico all’aria aperta e abbronzatura come rigenerazione del corpo e della mente. In questo periodo, è anche influenzato dalla corrente filosofica del Monismo, secondo cui mente, materia, forze invisibili e universo tangibile coincidono. Nascono, così, scene di bagnanti al lago, in cui l’impostazione della scena, oltre a Gauguin, ricorda anche la Pittura tedesca di inizio ‘900 e fa riferimento ad alcune pratiche di auto-medicina seguite dallo stesso Munch, ma anche paesaggi dai colori solari e caldi, oltre a ritratti, come le splendide Bambine ad Åsgårdstrand (1903), in cui è forte il richiamo alla Pittura di Renoir.
Edvard Munch vive in prima persona la nascita della Norvegia moderna, che ottiene, nel 1905, l’indipendenza dalla Svezia. Forse, il pittore può essere considerato uno dei padri culturali norvegesi insieme all’amico Ibsen ma anche al musicista Edvard Grieg. Per celebrare ciò e il centenario della sua fondazione, l’Università di Oslo indice un concorso per la decorazione murale monumentale di un salone, a cui Munch si dedica corpo e anima, tra il 1909 e il ‘16. Il ciclo ideato dal pittore si compone di undici tele celebranti la Nazione, l’Università e le sue discipline accademiche, in cui quella centrale raffigura il Sole, elemento basilare del Vitalismo, ma anche simbolo del sapere che si irradia sugli studenti, vegliati da una figura femminile che appare in un altro pannello, quell’Alma Mater allegoria dell’Università (basti pensare che la figura dà, ancora oggi, il nome popolare ad atenei antichissimi, come quello di Bologna). Le opere vengono rifiutate dall’Università, in quanto ritenute bozzetti, ma, tra varie traversie, vengono riottenute dall’ateneo tramite donazioni legate ad amici e conoscenti di Munch.
Edvard non è mai stato un grande ritrattista, ma ha eseguito una notevole quantità di autoritratti, durante le differenti fasi della sua vita. Lavorare su se stesso, per Munch, è un modo ulteriore per esplorare la propria emozionalità, le sue espressioni e la sua postura nello spazio. Davanti allo specchio, l’artista sa assumere più forme, dalla litografia del 1895 in cui si immedesima con uno spettro di uno dei drammi di Ibsen, con la testa avvolta nell’oscurità e un braccio scheletrico ai piedi del busto, all’opera in cui, nel 1903, si immagina nudo tra le fiamme dell’inferno (segno di forte connotazione psicologica). L’autoritratto gli permette anche di esplorare il lento e inesorabile passare del tempo sul suo corpo, come provato dal Viandante Notturno (1923-24), in cui l’ormai maturo Munch sembra un fantasma che gira per casa in preda all’insonnia. Una piccola curiosità risiede nel fatto che Munch è stato uno dei pionieri dell’autoscatto fotografico, stratagemma che gli consente di immortalarsi in movimento, facendone uno dei padri di una moda oggi quotidiana, come quella del selfie. Il tutto è dovuto a un’emorragia che subisce nel 1930 e che lo lascia ipovedente per alcuni anni: Munch coglie l’occasione per immortalarsi come uno spettro in movimento, camminando al rallentatore e scattando varie foto, delle quali due sono esposte in mostra.
La mostra si conclude con alcune tele che segnano l’eredità che Edvard Munch lascia ai posteri, tra cui spicca la bellissima Notte Stellata (1922-24), dipinto presso la casa di vacanze a Ekely e in cui il pittore osserva attentamente l’orizzonte popolato dalle stelle esattamente come fa Vincent Van Gogh in una tela con lo stesso titolo e analogo soggetto: i due pittori erano sicuramente legati dalla comune convinzione che tutti gli elementi della Natura avessero un’anima, e questa tela lo testimonia, visto il dialogo costante tra il cielo blu intenso ricco di stelle e il paesaggio innevato, di un bianco quasi “shocking”, che costituisce anche un riflesso della personalità di Munch, sempre a cavallo tra inquietudine e serenità, ma anche della sua interiorità. Questo è, a tutti gli effetti, un paesaggio-stato d’animo, che costituisce il migliore lascito che l’artista potesse lasciare ai posteri.
Edvard Munch. Il grido interiore
Palazzo Reale, Milano, Piazza Duomo 12
Orari: martedì-domenica 10.00-19.30; giovedì 10.00-22.30; lunedì chiuso
Biglietti: Intero 15,00 €, ridotto da 13 a 10,00 €
Info: https://www.palazzorealemilano.it/mostre/il-grido-interiore