Il 27 Novembre "Come Farfalle… quando la vita diventa un volo” intervista alla regista Miriana Ronchetti
Sabato 27 novembre alle ore 20,30, presso la sala Musa dell’istituto Carducci, in via viale Cavallotti 7 a Como, andrà in scena lo spettacolo “Come Farfalle… quando la vita diventa un volo” testo e regia di Miriana Ronchetti.
L’evento, ideato dall’autrice, regista e interprete comasca, è finalizzato a sensibilizzare la cittadinanza sulle tematiche relative alla demenza senile e la malattia di Alzheimer.
Uno spettacolo che narra di una grande storia d’amore: quella fra una madre ed una figlia. Lo scopo è avvicinare le persone al mondo complicato della sofferenza, cercando di suggerire a quanti vivono situazioni “fragili”, un modo diverso per affrontare quella gabbia di dolori, incomprensioni e paure, in spazi di accettazione tramite l’istintiva fantasia creativa ispirata dall’amore.
Abbiamo voluto intervistare proprio l’ideatrice di tutto questo Miriana Ronchetti.
Miriana, uno spettacolo molto bello quello che si terra a Como il 27 di questo mese.
Grazie per il vostro interessamento.
Di che cosa si tratta e come mai la decisione di affrontare temi così delicati come la demenza senile e la malattia di Alzheimer?
La musa ispiratrice è stata mia madre che verso gli 80 anni, ha iniziato a manifestare episodi sempre più ricorrenti di gravi dimenticanze e atteggiamenti caratteriali, insoliti per lei, fino alla sua scomparsa cinque anni fa. Io lavoro nel teatro e scrivo commedie, storie anche di vita quotidiana, ambientate nei contesti sociali più vari. Scrivere una storia per lei è stato un modo per ringraziarla di tutto ciò che mi ha insegnato in sei anni di vita insieme. La sua “inconsapevole” allegria, nonostante quella vita strana dove non ricordava più nulla, dove i cambiamenti di umore dominavano, mi ha dato l’idea che anche le cose più complesse si possono affrontare, se si impara a guardare oltre.
Lo spettacolo narra di una bellissima storia d’amore tra madre e figlia. Cosa significa per te tutto questo e perché hai scelto una storia tra madre e figlia e non un’altra storia?
…significa rivisitare quel grande problema e rivederlo con gli occhi del “dopo”; significa cercare di capire perché solo in certi momenti, noi umani, forse per un istinto di sopravvivenza psicologica, riusciamo a inventarci atteggiamenti e modi di fare che mai avremmo pensato di adottare.
Lo scopo dello spettacolo è quello di sensibilizzare soprattutto i giovani e la società. Chi sono gli anziani e cosa manca secondo te al mondo di oggi?
Cosa manca? Mancano tante cose, ma se ci riferiamo al modo degli anziani, direi che manca soprattutto quel tempo fatto di sguardi, carezze, camminate mano nella mano senza dare sempre l’impressione di essere con un piede sulla soglia della porta, per scappare a fare lavori o altro che a ben pensarci, non ha lo stesso valore che può avere un’ora ben spesa, con una madre o una nonna o un’amica/o che cerca soltanto una parola di comprensione e affetto.
Preparare questo spettacolo non è stato facile, chi è che ha collaborato insieme a te in tutto questo?
Per me preparare uno spettacolo è sempre facile perché amo il mio lavoro; diventa pesante quando il tempo è minimo, quando mancano i mezzi per realizzare quello che davvero vorresti e allora devi limitarti…diventa pesante quando sei solo a dover fare tutto, dalla stesura del testo all’acquisto delle pile. Grazie a Dio, chi fa un lavoro come il mio è un po’ come un’alchimista che alla fine trasforma le cose. E basta poco per tornare a lavorare con grande impegno.
Il teatro inizia lentamente a riaprire dopo lunghe chiusure come ci si sente?
Non lo so. Io non ho mai chiuso. Ho imparato a utilizzare le piattaforme di Zoom e altro e ho realizzato corsi, stage e spettacoli anche al computer…non fosse altro che per cambiare il corso dei pensieri. Questo anno e mezzo ci ha cambiati tutti, tanto. Io ho scritto quattro commedie dallo scorso anno.
Infine a chi vorresti dedicare tutto questo capolavoro e cosa ti senti di dire ai nostri lettori?
…Alle persone che sanno comprendere, a quanti credono di non farcela… a ogni famiglia che si trovi improvvisamente in contatto con la malattia che causa la progressiva perdita dell’identità.
Purtroppo tanti non ce la fanno a superare l’ostacolo principale: la paura.
E poi vorrei dire che non è contrastando la volontà del malato che se ne può migliorare l’esistenza, ma è esattamente l’opposto che creerà una nuova relazione. Il male non ha mai l’ultima parola, se lo sguardo va oltre ciò che appare.
Userò le parole di una psicologa la dottoressa Quaia Luciana, che dopo aver visto lo spettacolo ha scritto: ”Per quella madre, sognatrice smemorata, ma madre attenta e premurosa, l’orologio si è fermato a quel tempo in cui, per soddisfare i desideri della sua bambina, un catino pieno d’acqua diventa il mare in cui pescare. E anche adesso, quando il tempo non ha più importanza, quel gioco può ritornare a essere un dono prezioso, perché l’amore non svanisce mai e, nel buio che avanza, madre e figlia lo possono illuminare gettando nell’acqua canne luminose e cullando i loro sogni in un abbraccio senza fine”.