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VIDAS: quando la fragilità diventa abbraccio a Milano

amore foto carmen

Un abbraccio collettivo a Milano

Lo scorso weekend Milano ha accolto un evento che ha lasciato un segno profondo nel cuore di chi c’era.
Non un semplice appuntamento culturale, ma un incontro di anime: una sinfonia di pensieri, sguardi e sorrisi che hanno raccontato, in silenzio e con intensità, la bellezza della fragilità umana.
Il festival culturale di VIDAS, ospitato al Teatro Franco Parenti, ha trasformato la città in un luogo di riflessione e consapevolezza, dove la parola “cura” ha smesso di appartenere solo alla medicina per abbracciare la vita nella sua totalità.

VIDAS: scienza e cuore dal 1982

VIDAS è una fondazione milanese, nata nel 1982 da un’idea di Giovanna Cavazzoni, e da oltre quarant’anni accompagna con dedizione, professionalità e infinito rispetto chi affronta la malattia e il suo ultimo tratto.
Un faro di umanità, un esempio concreto di come si possa coniugare scienza e cuore, assistenza e amore.
Ogni giorno, nei reparti, nelle case, nei gesti discreti dei suoi operatori, VIDAS ricorda che prendersi cura dell’altro non significa solo lenire un dolore, ma riconoscerne la dignità, la storia, l’anima.
E questo festival è stato il modo più alto per raccontare, attraverso la cultura, ciò che la fondazione compie nel quotidiano: abbracciare la fragilità e restituirle bellezza.

«Imperfetta civiltà»: il senso del titolo

Il titolo scelto per l’edizione di quest’anno, «Imperfetta civiltà», racchiudeva già un messaggio potente: la civiltà autentica non nasce dalla perfezione, ma dalla capacità di includere e comprendere.
Accettare le crepe dell’esistenza significa riconoscere che in esse abita la luce e che la vulnerabilità non è una condanna, ma una forma di verità.
Durante i tre giorni del festival si è parlato di diritti, di futuro, di convivenza, ma anche di quella delicatezza interiore che troppo spesso la società dimentica.
Milano, con il suo passo veloce e i suoi ritmi incessanti, si è fermata per ascoltare. E in quell’ascolto ha ritrovato il suo volto più umano.imperfetta civilta foto carmen

La cultura che cura

A dare voce a queste riflessioni sono stati filosofi, artisti, giornalisti, scienziati, scrittori: tutti uniti da un unico filo conduttore, la consapevolezza che la cultura può curare, che il teatro può diventare luogo d’anima e che l’arte, quando tocca la verità delle emozioni, smette di essere rappresentazione per farsi abbraccio.
C’è stato chi ha raccontato il potere di una carezza nel reparto di un hospice, chi ha descritto la forza silenziosa di una madre, chi ha riflettuto su come il bene possa diventare contagioso se fatto con autenticità.

Il respiro di Ermanno Olmi

Tra i momenti più intensi, l’incontro dedicato a Ermanno Olmi è stato un respiro sospeso tra poesia e vita.
Le sue parole, delicate e disarmanti, hanno riempito la sala di silenzio e stupore.
Olmi raccontava come la sofferenza non arrivi solo con la perdita, ma anche con la paura di perdere ciò che amiamo: una riflessione che tocca l’essenza stessa dell’amore.
Quando teniamo a qualcuno o a qualcosa, sentiamo dentro di noi la vertigine della possibile assenza; eppure è proprio in quella paura che si rivela la bellezza dell’essere vivi.
Perché chi ama accetta di essere fragile. Chi ama si inginocchia davanti al sentimento, non per sottomissione ma per gratitudine.
Olmi ricordava che “un uomo in ginocchio può essere più grande di uno in piedi”, perché chi si piega all’amore vince sull’orgoglio e si rialza più forte.
E poi la sua metafora del fiume: un flusso che nasce da sorgenti invisibili, scorre, si alimenta di altri rivoli, incontra ostacoli, si trasforma e infine torna al mare.
Un cerchio che non si chiude, ma si compie.
Come a dire che nulla di ciò che siamo, amiamo o doniamo andrà mai perduto: resterà acqua, resterà luce, resterà vita.
Una visione che commuove e insegna che la fragilità non è la fine, ma la forma più alta di consapevolezza.

Comunità, assistenza e solidarietà

Nel corso del festival si è parlato anche di comunità, di assistenza, di come la solidarietà possa diventare un linguaggio universale.
Laboratori, installazioni e dialoghi hanno mostrato che la vera forza nasce dall’ascolto reciproco, dalla gestualità condivisa, dai pensieri che non giudicano ma accarezzano.
Quelle stesse mani che nel quotidiano accolgono chi soffre, durante il festival hanno saputo accogliere le emozioni di centinaia di persone, restituendo loro la certezza che non siamo soli.

L’incontro che non ti aspetti

E poi, come spesso accade quando la vita decide di parlarti sottovoce, c’è stato un piccolo episodio che mi ha ricordato cosa significhi davvero “incontro”.
Ero appena rientrata a Milano dopo un periodo trascorso altrove, con un mazzo di fiori in mano — un dono che mi ero fatta per riempire la casa della mia gestualità emotiva e solidale verso me stessa.
Mentre camminavo assorta nei pensieri, ho incrociato una donna che mi sembrava familiare.
L’ho chiamata con un misto di incertezza e speranza.
Si è voltata… e in quell’istante il tempo si è fermato.
Era lei, colei che più di vent’anni fa mi aveva fatto innamorare di Milano attraverso il teatro: la cofondatrice del mio amato CTA – Centro Teatro Attivo, il luogo dove ho imparato che le parole possono respirare, che le vocali sono sette e non cinque, che per essere veri attori non si recita un ruolo… lo si vive.
Ci siamo abbracciate: un abbraccio pieno, sincero, di quelli che arrivano prima al cuore e poi alle parole.
E in quell’abbraccio ho ricevuto la mia prima carezza milanese dopo tanto tempo.
Tra un ricordo e un sorriso, lei mi ha parlato di questo festival, raccontandomi che era organizzato da una persona a lei molto cara.
Nel pomeriggio l’avrei conosciuta anch’io e con lei sarebbe nata subito un’empatia profonda: una voglia di creare, di costruire insieme progetti che unissero emozione e cultura, mente e cuore.
E ho pensato che la vita, a volte, trova modi misteriosi per ricondurci dove dobbiamo essere.

Milano, quando abbraccia

Ecco, Milano è questa.
Una città che molti definiscono fredda, distante, troppo impegnata per guardare negli occhi. Forse lo è.
Ma quando abbraccia, lo fa per davvero.
E in questo weekend lo ha fatto con tutta se stessa: unendo teatro, cultura, medicina, vecchi incontri e nuovi progetti in un’unica, grande sinfonia di umanità.
Lo ha fatto grazie a una fondazione che ogni giorno abbraccia la vita e la restituisce alla luce.
Lo ha fatto grazie a chi crede che la fragilità non sia una condizione da curare, ma un valore da condividere.

La lezione che resta

E se c’è una lezione che questo festival ci lascia, è che la vera cura nasce dall’anima: dalle mani che si stringono, dai sorrisi che scaldano il cuore, dai pensieri che si intrecciano e generano quel pensiero vero, quello che non giudica ma accarezza.
Quello che ci ricorda che essere umani significa, prima di tutto, saper abbracciare.

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