Due nuove moschee a Milano: strumenti di integrazione o problema da gestire?
In Italia i principi in tema di libertà religiosa sono ampiamente ispirati al multiculturalismo, ed accordano pari dignità alle espressioni dei vari gruppi sociali che vi convivono.
Grazie all’impostazione democratica del nostro ordinamento giuridico e delle nostre istituzioni, in questo Paese viene riconosciuto degno di tutela il “diritto che ogni individuo ha di formarsi secondo una cultura che riconosca come propria” (Giancarlo Rolla – Università di Genova).
A Milano, a seguito dell’avvenuta assegnazione degli spazi per la costruzione di due nuove moschee (area Palasharp e via Esterle) ha esultato Davide Piccardo, in rappresentanza del CAIM - Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano e Monza e Brianza - parlando di un “processo assolutamente innovativo che può diventare un modello per l’Italia”, mentre l’assessore alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, ha raffreddato alquanto gli entusiasmi, mettendo alcuni paletti nel preannunciare la possibilità di “un nuovo passaggio in consiglio comunale”, e nel prospettare il “coinvolgimento di altre istituzioni come la Prefettura o altre verifiche”.
In molti si domandano se per i Milanesi la costruzione di due nuove moschee debba costituire un motivo di orgoglio, oltre che l’attuazione di un principio di civiltà, o se - contrariamente - rappresenti un pericoloso segnale di cedimento nei confronti di una cultura retrograda e lontanissima dai nostri valori morali e costituzionali.
Per rispondere a questa domanda è necessaria una corretta informazione sui principi ai quali deve conformarsi il comportamento del buon mussulmano, cioè dell’utente che andrà a usufruire di queste nuove strutture. Cominciamo con il sottolineare come la vita di un buon musulmano debba ispirarsi alla Shari’ah Islamica, la quale in alcuni Paesi, oltre ad essere un codice di comportamento etico, è anche la “legge dello Stato”. La Shari’ah, che si ispira al Corano e agli Hadit (cioè raccolte di “detti di Maometto” variamente interpretate dai giuristi islamici), comprende:
- obblighi (per esempio pregare 5 volte al giorno);
- consigli (per esempio andare in pellegrinaggio alla Mecca più volte nella vita);
- divieti non tassativi, ma che comunque è bene rispettare per non suscitare la riprovazione sociale (ad esempio il divieto di mettersi a mangiare con le mani “non lavate”);
- divieti tassativi, tra i quali alcune precise limitazioni su abbigliamento e alimentazione.
La Shari’ah prevede, inoltre, la pena di morte in quattro casi:
- l’omicidio: l’assassinio ingiusto di una persona, secondo certuni, dovrebbe sempre essere punito con la pena capitale; secondo altri, questa è da applicare solo quando l’ucciso è mussulmano (quasi che la vita di costui abbia un valore intrinseco superiore a quella di un altro comune mortale di diversa confessione religiosa!);
- l’adulterio: le persone responsabili di entrambi i sessi, se sposate, vengono interrate per metà e poi colpite con pietre fino alla morte; le persone non sposate, invece, possono cavarsela con 100 frustate;
- la bestemmia contro Allah;
- l’apostasia (cosiddetta “Ridda”): “nella tradizione islamica mentre si ammette che si possa seguire un’altra religione non è permesso l’abbandono della fede islamica, per la qual cosa è prevista la pena di morte” (Giovanni De Sio Cesari).
In una diffusa interpretazione del concetto di apostasia “Coloro che aiutano o solo” non combattono” i nemici dell'islam, vengono definiti apostati in quanto avrebbero abbandonato la fede islamica. Possono quindi essere considerati apostati i governi moderati (praticamentetutti, dal Marocco all'Indonesia) e tutti i singoli che collaborano con gli occidentali o che solo non aiutano il jihad”( Giovanni De Sio Cesari).
Nella contestazione dei predetti reati sono essenziali quattro testimoni musulmani adulti oppure la confessione del reo. La Sharia’ah non prevede la pena capitale per altre tipologie di violazioni. Le altre condanne a morte (come ad esempio quella per omosessualità) sono previste in Nigeria, Saudi Arabia e Iran, per il disposto di leggi locali diverse dalla Sharia’ah.
Tornando a quest’ultima, il furto si chiede che sia punito con l’amputazione della mano destra, la rapina invece con l’amputazione della mano destra e del piede sinistro. La condizione femminile della donna islamica, inoltre, non è ispirata alla parità dei sessi, ed è oggetto nel Corano di diritti attenuati rispetto a quelli maschili come accade ad esempio nel caso dell’eredità, dove i diritti della donna sono minori di quelli dell’uomo.
Bisogna specificare che le regole della Sharia’ah, qui enunciate, sono rigidamente applicate soltanto in Afghanistan, Arabia Saudita, Iran, Sudan e Yemen, mentre negli altri Paesi islamici, vengono interpretate con spirito più moderato; in altri ancora sono considerate prescrizioni puramente etiche, senza conseguenze strettamente penali.
Bisogna poi valutare un altra importante questione relativamente al preannunciato progetto di realizzare le due nuove moschee a Milano, cioè quella dei problemi logistici che questo comporta in termini di gestione della sicurezza delle persone e dell’ordine pubblico, visto e considerato che le trascorse frequentazioni di tale tipologia di luoghi di culto non sempre si sono dimostrate all’altezza dello spirito democratico che ne hanno permesso l’edificazione. Gli interrogativi al riguardo restano purtroppo aperti, privi di certezze e di garanzie.
A titolo di curiosità, vengono qui di seguito riportate - in tema di integrazione dell’Occidente con il mondo islamico - le parole scritte dal Prof. Giovanni De Sio Cesari, illustre giornalista, storico e docente di filosofia, autorevolissimo esperto di dialogo interculturale nei rapporti con i Paesi arabi. “C’è un principio basilare : l’Islam è superiore, e nulla deve elevarsi al di sopra di esso: la conseguenza fondamentale è che il mussulmano non deve lasciarsi assorbire dalla cultura del paese di adozione ma sentire ogni giorno tra lui e la società impura in cui vive una barriera, che deve impedire al mussulmano di integrarsi e fondersi con questa società. Deve avere il sentimento di trovarsi in una societàche non è la sua, che vi si trova temporaneamente per necessità fino a quando non sarà in grado di fuggirla o cambiarla e, nell’attesa, deve mantenersi nella sua integrità e purezza del “dar el islam” (il Regno dell’Islam). Da ciò deriva la tendenza propria dei mussulmani a chiedere nei Paesi di immigrazione istituti particolari (soprattutto la scuola ma anche il velo) con l’intento esplicito di ricreare una propria comunità di fedeli (umma) chiusa agli influssi esterni del Paese in cui si trova.”
Ed ancora, ci chiediamo in quale modo lo spirito di democrazia e di rispetto delle istituzioni occidentali verso l’Islam, fin qui descritto, venga ricambiato; insomma quale sia nel concreto l’atteggiamento del musulmano osservante - e delle istituzioni che lo rappresentano - nei confronti di chiunque non appartenga alla sua stessa confessione religiosa nei Paesi islamici. “I NON MUSULMANI non hanno pienezza dei diritti politici, che sono riconosciuti pienamente solo ai componenti della ”umma” (comunità dei fedeli islamici); essi sono tollerati solo - e nella misura in cui - non nuocciano ai mussulmani”.
A ragion veduta, posizioni così nette fanno sorgere dubbi ed inducono riflessioni che lasciano intendere quanto lunga e tortuosa sia - al di là delle buone intenzioni - la strada verso la necessaria integrazione.