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Dylan Thomas: la poesia come resistenza alla semplicità e al morire della luce

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Dylan Thomas: la poesia come resistenza al morire della luce

“…E mi rendo conto come mi sia impossibile sollevarmi all’altezza delle stelle, e come sia costretto, per conseguenza, ad abbassare le stelle al mio livello e ad includerle nel mio universo materiale…”

Dylan Thomas, poeta tanto bello quanto dannato, ha lasciato un'eredità indelebile nella letteratura mondiale. La sua vita e la sua opera sono state profondamente intrecciate, culminando in una poesia che ancora oggi risuona con forza.

Alla morte del padre, Thomas scrive una poesia divenuta famosissima:
“E tu, padre mio, là sulla triste altura
Maledicimi, benedicimi, ora, con le tue lacrime furiose, te ne prego.
Non andartene docile in quella buona notte.
Infuriati, infuriati contro il morire della luce.”

Uno dei versi più iconici — “Rage, rage against the dying of the light” — è stato ripreso e reso celebre da Michael Caine nel finale del film Interstellar.

Thomas vuole che la sua poesia risuoni nella pancia delle persone, e poi nella testa, come un magico flautista capace di incantare le masse attraverso il suo ritmo melodioso e complesso.

La complessità è la sua forza.

Chi si approccia a Dylan Thomas nota subito che la sua poesia non ha una lettura immediata; a tratti sembra persino respingere il lettore. Ma Thomas sa che la comprensione immediata rappresenta una forma di debolezza, quasi un depotenziamento. Vuole che il lettore “ci sbatta la testa”, che si scontri con i suoi versi.

D’altronde, il vento, il mare, le scogliere del Galles — dove ha vissuto — non si comprendono, si vivono. Ci si abbandona ad esse.
Ed è proprio questo che Thomas desidera: che ci si abbandoni alla vita, pur nella sua intrinseca difficoltà, contrassegnata da stenti e povertà.


L’ultimo slancio

Verso la fine della sua vita arriva il riscatto: a New York, finalmente viene celebrato e incontra Igor Stravinsky per discutere di una possibile collaborazione a un'opera teatrale musicale. La sua ultima raccolta di poesie, pubblicata l’anno precedente, ha avuto un successo strepitoso.


La poesia contro il mito della semplicità

Ma cosa può ancora darci la poesia di Dylan Thomas, in un mondo sempre più votato alla semplificazione?

In un’epoca in cui ogni significato deve essere sminuzzato per un pubblico illuso dal “mito della semplicità” — che spesso è solo banalità —, circondati dai profeti del mindset positivo, Thomas si erge con la sua poetica vigorosa.

Ci fa riscoprire il ritmo ancestrale della poesia.
Ci insegna che la complessità aiuta.

Quando scrive:
“La forza che spinge l’acqua tra le rocce
Spinge il mio rosso sangue; quella che le correnti alla foce prosciuga
Le mie trasforma in cera.
E sono muto a urlare alle mie vene
Che alla fonte montana succhia la stessa bocca.”

…la prima cosa che si nota è l’uso del ritmo: percussivo, tribale, viscerale. Un ritmo che sale dalla terra e inonda l’essere.


L’anima celtica

La poesia di Dylan nasce in un paesaggio celtico da immaginare: scogliere del Galles battute dal mare, nebbia, pioggia leggera, freddo nelle ossa.
Thomas passa i pomeriggi nei pub, tra pinte di birra. E quando l’alcol dissolve le ultime resistenze, si avventura dentro sé stesso, alla ricerca di versi e immagini che diano voce alla sua anima.

Un giorno, parlando del suo metodo, dice:

“Io lascio che un'immagine sorga dentro di me e poi applico un principio di contraddizione: ne faccio nascere un'altra che la contraddice, che in qualche modo si sovrappone, la cancella, la determina o la mette in un angolo. E poi ancora una terza che fa lo stesso processo con tutte e due, come se creassi una catena in cui ogni anello congiunge al precedente ma in qualche modo lo mette anche in crisi.”

Questo crea una tensione costante, come trovarsi in balia delle onde: un equilibrio fragile, dove le parole sono onde che possono affondarti.
E lui lo sa.
E ti dice:

“Vieni con me, vieni a vedere la meraviglia dell’universo.
Ma fallo tenendoti a galla. Sentendo il pericolo.
E trovando in te la forza per non soccombere.”


La morte, la comunione, l’universo

Dylan scrive ancora:
“I morti nudi saranno una sola cosa con l’uomo nel vento e la luna d’occidente…
Gli amanti si perdono, l’amore non sarà perduto.”

La sua dipendenza dall’alcol è un continuo versarsi, eccedere, rimescolarsi al mondo, cercare un punto di comunione.

È un impulso panteista: l’universo non è altro da noi.
Forse il poeta è davvero colui che ti mostra la porta per l’altra parte.


L’ultima notte

Il suo ultimo soggiorno a New York si apre il 2 novembre 1953, durante una terribile nube di smog che ucciderà 200 persone.
Il giorno dopo, Thomas esce lo stesso.
Va al White Horse Tavern, dove secondo la leggenda si scola diciotto whisky.

Viene ricoverato d’urgenza in ospedale, in preda al delirium tremens, anche se il certificato riporterà un’altra causa. Morirà poco dopo.

La moglie, arrivata in ospedale, grida:

“Allora è morto il bastardo!”

Ma non ci restano solo le poesie.
Ci restano anche lettere d’amore.
In una scriveva:

“Questo è di nuovo un brutto momento per me, e non posso comprare il francobollo per la lettera. Non ho un solo penny o un mezzo penny, né una vecchia moneta francese. Senza fumo e senza pane abbiamo dinanzi a noi un brutto weekend. Aspettiamo scellini che non abbiamo alcun diritto di aspettarci. L’amara, crudele pipa è piena di cicche tolte dalla grata. Il tavolo è gremito di finali morti di poesie. Ho la testa piena di assurdità. Il sole sta splendendo. Mia moglie è fuori in cerca di molluschi.”


La poesia che ti cambia

Addentrarsi nella poetica di Dylan Thomas è un’esperienza unica.
All’inizio ti respinge, ti irrita, sembra provocatoria.
Ma poi ti entra dentro. Ti parla. La senti.

Ti scava nell’anima e poi ti sale alla testa.
E quando ne esci, non ti accontenti più della semplicità.

Cerchi la profondità vera delle cose.
E quel verso, “Infuriati contro il morire della luce”,
non è più solo poesia.
È una chiamata a resistere.

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