Imprese Italia: delocalizzare o tornare in patria?
GLI IMPRENDITORI ITALIANI SI INTERROGANO: CONTINUARE A DELOCALIZZARE, O RITORNARE A FARE IMPRESA IN PATRIA? Milano al primo posto in Italia per il rientro delle imprese dall’estero!
Bollette energetiche non competitive, assenza del credito, elevato costo del lavoro, pubblica amministrazione inefficiente, fiscalità insostenibile e persecutoria, burocrazia dall’ottusa supponenza autoreferenziale: tutto in Italia sembra congiurare contro l’iniziativa imprenditoriale. A ciò devono aggiungersi la mancanza di una politica industriale e la carenza di fondi per l’innovazione.
Il risultato è che nell’ultimo decennio più di 27.000aziende nostrane hanno delocalizzato la loro produzione all’estero, assumendo fuori dai nostri confini più di 1,5 milioni di lavoratori. Di queste imprese solo il 10% si è spostata oltre i confini dell’Europa (ad esempio in Cina), il restante 90% si è collocata in Austria, Svizzera, Germania, ma soprattutto nei paesi balcanici, che ormai sono in grado di offrire stabilità politica e mano d’opera non particolarmente qualificata, però a bassissimo costo. Secondo un’indagine condotta da Confindustria Balcani due anni fa, il salario medio di un dipendente in Albania è di 250,00 euro mensili; in Romania è un po’ più alto, e tocca il tetto dei 350,00 euro; nell’intera area arriva al massimo a 411,00 euro mensili. Associato alla convenienza di un costo del lavoro così altamente competitivo, c’e un trattamento fiscale vantaggioso.
Da quando, poi, nella UE ha fatto il suo ingresso la Romania, è iniziato un esodo delle imprese italiane che qui si erano stabilite verso i paesi balcanici che non vi aderiscono, come ad esempio l’Albania - dove la manodopera riceve una minore tutela giuridica – in una logica di perseguimento del profitto di marxiana memoria.
C’è da notare che oggetto della delocalizzazione non sono soltanto le produzioni di beni di qualità bassa e medio/bassa, ma anche i marchi affermati come Armani, Geox, Benetton e molti altri, i quali non disdegnano il ricorso alla manodopera estera, per lo meno per alcune fasi di lavorazione dei loro prodotti, salvo poi evitare accuratamente di pubblicizzarlo. Del resto, un’area balcanica che apre le porte di un mercato di ben 40 milioni di potenziali consumatori, può costituire un’opportunità da non perdere.
In questi ultimi tempi comunque, sia pure molto lentamente, sta riaffermandosi una tendenza al contrario: alcune imprese italiane – per ora, quasi un centinaio – stanno timidamente ritornando nel nostro Paese, delineando un fenomeno migratorio parallelo, ma di direzione inversa, rispetto a quello precedentemente descritto; lo stesso si sta verificando per molte imprese americane espatriate a suo tempo.
La città di Milano è orgogliosamente al vertice di questo coraggioso processo di rientro (il cosiddetto “reshoring” o “back shoring), precisamente al secondo posto a livello mondiale dietro gli Stati Uniti dove, per celebrare il rimpatrio delle aziende emigrate, la Casa Bianca ha organizzato un grande evento politico e culturale, oltre che un consistente preventivo alleggerimento delle bollette energetiche.
In Italia non c’è al momento alcuna notizia di “accoglienza” nei palazzi del potere per gli imprenditori “reduci” da esperienze d’impresa oltre confine, e neppure si parla di impegni governativi in tema di ribasso dei costi energetici. La effettiva diminuzione del prezzo dei carburanti va attribuita unicamente al calo delle quotazioni del petrolio all’origine, non di certo ai meriti di un qualche piano di politica energetica nazionale, di cui non si intravede neppure l’ombra. Tantomeno si prospettano incentivi fiscali “veri” o imminenti riforme di “portata rivoluzionaria” per abbattere barriere burocratiche e tempi giudiziari. Nulla di tutto questo.
Le motivazioni retrostanti a questo inaspettato ritorno in patria di un certo numero di imprenditori, secondo alcuni studi al riguardo, sarebbero da ricercarsi altrove. Con particolare riferimento alla domanda di beni di lusso, pur essendo i brand italiani in testa alle preferenze degli stranieri, l’etichetta Made in Italy non viene più ritenuta sufficiente garanzia di qualità da un target di clienti sempre più esigenti i quali, non volendo rischiare l’acquisto di un prodotto “assemblato”, ormai sono orientati a richiedere una certificazione della filiera che possa documentare dettagliatamente manifattura, design e luoghi di produzione rigorosamente italiani. A conferma del trend, si assiste anche ad uno stravolgimento della catena delle forniture, in danno di quelle estere, e in favore di quelle italiane.
Alle predette considerazioni, devono aggiungersi, in ultimo, l’aumento – oltre frontiera - sia del costo del lavoro, sia del prezzo dei servizi logistici, quali stoccaggio e spedizione delle merci, nonché la crescita dei rischi relativi alla sicurezza delle persone e alla certezza della tutela legale.
In tale contesto, sarebbe auspicabile un intervento urgente e concreto della politica per incoraggiare e sostenere fattivamente tutti quegli imprenditori che, nonostante l’attuale intricata situazione economica e le emergenze sociali in atto, trovano ancora il coraggio e la buona volontà di scommettere su questo nostro Bel Paese.
Fonti: Confindustria Romania – Confindustria Bulgaria- Confindustria Balcani
Giulia Chiara Pepe