Un fondo nazionale per gli antichi ospedali
Di rilievo anche la grande opera assistenziale svolta dalle confraternite in Toscana fin dal Medio Evo, che diede vita a una fitta rete di ospedali in ogni piccolo centro, presidi che oggi restano soltanto un’antica testimonianza, riconvertiti per lo più a servizi generali delle Asl. Di sanatorio riconvertito abbiamo un positivo esempio a Padova, con la struttura oggi divenuta efficiente “Istituto oncologico veneto” mentre a Savona il San Paolo, inaugurato nel 1857, che vantava il primato di unico ospedale pubblico della neonata Italia Unita, è stato trasformato in struttura residenziale, commerciale e del terziario, con un accordo tra pubblico e privato.
Analoga sorte per l’ospedale di Montepulciano, dalla cui struttura sono state ricavate civili abitazioni, uffici e negozi mentre all’ex sanatorio Banti in località Pratolino, uno dei più interessanti esempi di architettura ospedaliera del XX secolo in Toscana, è andata un po’ peggio, con un destino di abbandono e degrado, dopo vari tentativi di riconversione. Storia singolare è quella dell’ospedale campano di Beneficenza, del 1872. Alle sue spalle, una struttura moderna è stata costruita nel 1992 per renderlo più spazioso, con un investimento di un miliardo di lire per dismetterlo poi, inspiegabilmente nel 1995. Anche l’ambiente, nella vicenda della riconversione o ricostruzione degli ospedali, gioca un ruolo fondamentale.
Ė il caso del nuovo ospedale da progettare nella piana dell’Ossola, soluzione fortunatamente scartata, sia per problemi organizzativi – l’ospedale unico baricentrico dista troppo da paesi popolosi – sia per quanto attiene alla natura del terreno che presenta problemi di natura idrogeologica. Non sempre la riconversione degli ospedali si risolve in un cambio di vocazione a svantaggio della collettività. A Cuneo, l’ex ospedale Santa Croce sta diventando biblioteca pubblica, da poco è stato aggiudicato il secondo lotto delle opere con bando di gara europeo e si sta organizzando il complesso trasloco di 300mila volumi.
Ambiziosa operazione anche nel Lazio, a Viterbo, dove la Regione ha investito 20 milioni di euro per realizzare, nell’antico Ospedale Grande degli Infermi “Il borgo della cultura”, che diverrà la nuova sede dell’archivio di Stato e della biblioteca provinciale, cui si affiancheranno un piccolo teatro con spazio all’aperto, un ostello della gioventù e la “casa del pellegrino”, che accoglierà i camminatori della via Francigena che nella Città dei Papi ha una delle sue tappe. Potrebbero essere portate ad esempio numerosissime vicende, tutte rivelatrici di una difficoltà di programmazione, di mancanza di progettualità e disinteresse nei confronti di strutture che rappresentano un valore aggiunto per la nostra cultura, la nostra organizzazione sociale e la tutela del nostro patrimonio artistico e ambientale.
Tali vicende ci riportano a un altro tema legato agli ospedali storici: il loro legame con il contesto. Comunemente, siamo soliti attribuire all’ospedale significanti legati alla mera attività che si svolge all’interno, ancorché rilevante. All’ospedale sono legati infiniti momenti dell’esistenza: nascite, malattie, morti, lavoro, legami, aspirazioni e molto, molto altro. Non sempre si analizza il rapporto che “l’edificio” ospedale ha con “l’intorno”, incontestabilmente significativo.
Per portare un esempio a noi noto, il Forlanini, già sanatorio poi divenuto ospedale, collega due ambiti importantissimi per il quadrante Ovest di Roma: i quartieri Monteverde e Portuense. Averlo chiuso nel 2015, significa aver azzoppato tutta la vitalità dell’intorno, il commercio, la socialità, la manutenzione ordinaria. L’edificio oggi offre di sé una immagine che rimanda agli anni Cinquanta, quando il complesso, circondato da una possente muraglia viveva un comprensibile isolamento, causato dallo stigma legato al “mal sottile”. Poi il cambiamento, legato alla Riforma sanitaria che vide il Forlanini unito al vicino San Camillo, sotto la stessa amministrazione. Due esempi significativi di architettura ospedaliera del Novecento a Roma: il primo quale modello anticipatore di edificio monoblocco a confronto con il San Camillo, a padiglioni, destinato a inevitabile superamento.
Come si evince da questa breve e non esaustiva esposizione, dal Piemonte alla Sicilia, passando per il Centro Italia, le situazioni sono difformi e manca un’unica regia in grado di stabilire una programmazione degli interventi. Il gioco di veti incrociati tra forze politiche fa la sua parte nel dilazionare tempi e decisioni. Un patrimonio di valore rischia di perire.
Per tale preoccupante scenario il 22 giugno 2017 le Regioni proposero all’allora ministro della Salute, Beatrice Lorenzin la costituzione di un Fondo nazionale per valorizzare gli ospedali dismessi. L’idea, promossa dagli assessori regionali alla Sanità coinvolgerebbe Invimit, società con capitale del ministero dell’Economia che opera già nella “valorizzazione” delle ex caserme. Della proposta, condivisibile o meno che fosse (quando si parla di valorizzazione c’è sempre da preoccuparsi), non si ha più notizia. Forse poteva essere una delle soluzioni atte a risolvere l’annosa questione degli ospedali dismessi.