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Elena Arvigo racconta il suo Teatro "non rieducabile"

elenaarvigo.jpgElena Arvigo, attrice e regista italiana, classe 1974, è la protagonista dello spettacolo Donna non rieducabile, in scena al Teatro Out Off fino al 25 ottobre. Questo non è solo uno spettacolo, ma un'idea di teatro, un Teatro sempre in divenire, in movimento, che accoglie iniziative e progetti...
 
Come il tuo Le imperdonabili. Come è nato questo progetto e perché hai deciso di focalizzarti sul rapporto tra le donne e la guerra?

Il progetto Le imperdonabili nasce da una riflessione sulla figura di Elena, che, essendo anche il mio nome, è un personaggio che mi riguarda in qualche modo da vicino. Tutti la conoscono come Elena di Troia, ma per me è sempre stato un personaggio misterioso. Un’estate, a Roma, dovevo fare Elena di Ritsos, e per farla avevo iniziato a studiare il mito di Elena. Su di lei il materiale è moltissimo, la bibliografia immensa, ma rimane una donna misteriosa: Elena rappresenta infatti il Mito. Ogni tanto la trovavano in qualche isola o in qualche paese lontano, un po’ come la nostra Marylin Monroe. Sono storie in cui quello che è vero e quello che è finto si intrecciano. A me ha colpito molto il fatto che Elena di Troia fosse in realtà Elena di Sparta: i greci nella comunicazione erano bravissimi! È la comunicazione che fa l’evento: pare che Elena sia sempre rimasta a Sparta, ma gli Achei andavano a cercarla, con il suo viso scolpito sugli scudi, nonostante quello che cercavano fosse solo un fantasma. Questa è una metafora meravigliosa: le persone vanno in guerra per motivi molto diversi da quelli reali. Ho letto successivamente il libro di Cristina Campo Le imperdonabili che racconta figure di donne che hanno attraversato la guerra, sempre in atto, perché dipende da dove ci si trova, come Etty Hillesum o Monica Ertl. Mi intrigava il punto di vista delle donne sulla guerra, mi piacevano queste donne che resistono…. e cercandole ho trovato Anna Politkovskaja. Una donna con un’energia straordinaria, che usava per ascoltare le persone. Questa sua profonda capacità di ascoltare la rendeva una giornalista realmente responsabile, ma non era sola. Questo progetto vuole essere infatti un’opportunità per parlare anche di altre persone, come accadrà con il documentario 211: Anna, giovedì 22 ottobre. 211 è il numero di giornalisti morti in quegli anni, giornalisti responsabili, che volevano essere testimoni. Tutte queste storie, che siano quelle delle "imperdonabili” o dei testimoni scomodi sono belle e, seppur finite male, rimangono belle, oltreché utili. Per il progetto Le imperdonabili il desiderio era anche quello di parlare di donne forti, coraggiose, che hanno lasciato un segno, nonostante il desiderio di zittirle, nonostante le condizioni avverse in cui hanno dovuto vivere.

"Donna non rieducabile" non è solo uno spettacolo. Il calendario di incontri è lungo tre settimane... Cosa ci puoi raccontare di tutte queste iniziative?

I progetti non sono nati tutti insieme, ma da semi passati. Ad esempio con Fabrizio Matteini, che è un amico, volevamo fare qualcosa insieme… quando ho scelto di realizzare queste tre settimane qui al Teatro Out Off ho pensato che sarebbe stato bello chiedergli se poteva venire a presentare qualcosa. Lui mi ha proposto Jan Karski e abbiamo subito convenuto fosse un personaggio legato ai temi di questo progetto, in particolare alle testimonianze scomode. Hanno così iniziato a strutturarsi anche gli altri incontri: volevo introdurre il discorso delle imperdonabili, da qui l’incontro su Etty Hillesum; ho proposto a Rosario Tedesco, che è siciliano, di parlare anche di mafia, così è nato l’incontro su Danilo Dolci e Rita Atria, un personaggio che sta studiando in questo momento un'attrice che conosco da tempo, Marzia Ercolani e che ho pensato di coinvolgere nel progetto; poi ho conosciuto il Professor Fausto Malcovati e si è deciso di parlare di Salamov, cronista dal gulag sovietico.

Tutti questi sono semi di altre cose, ogni cosa è collegata, una cosa porta all’altra, come in un valzer. Un progetto come questo è imprevedibile, perché gli spunti sono molti e nulla è completamente deciso, tutto è in divenire. È molto bello lavorare così, ma difficile: devi permettere che tutto segua la sua strada, rischiando un po’. Io trovo che sia bello lasciare “carta bianca”, un’espressione che mi piace molto. Sento che in questo modo si realizza qualcosa di vivo: questo progetto è vivace, porta caos. Non si può pensare al teatro come a un luogo tranquillo, immobile, deve essere in movimento, addirittura caotico, seppur guidato con intelligenza, maestria e professionalità. Un lavoro di questo genere è molto faticoso, non finisce mai; secondo me non è però possibile fare teatro, oggi in particolare, senza rischiare, senza voler testimoniare, senza essere responsabili.

elenaarvigo outoff.jpgLa scenografia dello spettacolo è di forte impatto. Come è nata l'idea della porta?

Per la scenografia io volevo lavorare sul concetto di confine perché, essendo il testo di Stefano Massini diviso per quadri, ritenevo necessaria, per rendere chiaro il passaggio da un quadro all’altro, un’immagine che rappresentasse il confine. All’inizio l’idea era un’altra, volevo delle porte appese, volevo ricreare un labirinto... avevo per questo contattato uno scenografo, Giuseppe Convertini, che mi aveva proposto una scenografia con porte all'interno delle quali sarebbero state proiettate immagini attraverso cui ricreare diversi mondi… per questioni economiche e di tempistica non è stato possibile e così è arrivata la porta. Avere pochi soldi non aiuta la comodità, ma aiuta ad essere essenziali… e la porta ne è un esempio. Era una scenografia di Maternity blues, regalatami nel 2011 da Lorenzo Ciccarelli del TeatroinScatola di Roma che voleva buttarla via.

Quella porta nello spettacolo acquisisce molti significati: è confine, passaggio, ascensore, bara... è un elemento simbolico, ma profondamente concreto. Nel caso di questo spettacolo la scenografia fa parte del testo, è interna ad esso: è la struttura stessa del testo di Massini che la richiede. Rosario Tedesco mi ha dato una mano e abbiamo lavorato insieme nelle utlime due settimane di prove: è stata una collaborazione preziosa, in quelle due settimane è stato un buon compagno di viaggio. Indispensabile è stato Andrea Basti, un videodesigner con cui lavoro da tempo che fin dall'inizio è stato con noi alle prove: per me era importante un supporto video che trasmettesse non solo immagini, ma anche dati e informazioni, come la cartina geografica e le date. Importante per l'elaborazione di Donna non rieducabile è stata anche la collaborazione artistica di Damiano Innocenzo, ma per questo spettacolo non si può parlare di regia, perché è più che altro un progetto in divenire, non ritengo infatti il lavoro di messa in scena concluso. Desideravo, ad esempio, inserire dei video, realizzati da me, di un viaggio in Russia e Cecenia, in modo tale che tra un quadro e l'altro ci fossero anche immagini di un mio reale viaggio in quei luoghi, ma per ora non è stato possibile. Credo sia un'interessante collaborazione quella che si è realizzata per questo progetto: in teatro bisognerebbe sempre lavorare insieme, altrimenti si rischia di avere uno scenografo che porta la scena già pronta, un costumista che ti dice cosa mettere… ed è così che il teatro perde l’anima.

Donna non rieducabile e tutte le iniziative collegate allo spettacolo fanno parte di un Teatro che è sociale, che ha un valore civile...

Secondo me il Teatro è sempre un atto civile, e ad oggi ha forse una responsabilità in più nei confronti del pubblico. Penso sia necessario chiedersi sempre con chi si sta parlando, altrimenti si perde il contatto con la realtà e si fa un Teatro autoreferenziale, che guarda allo specchio solo se stesso. Il pubblico teatrale è piccolo rispetto a quello della televisione: bisogna quindi coinvolgere il territorio, bisogna chiedersi se tutti quelli che abitano in questa via sanno che c’è un Teatro, che c’è in scena questo spettacolo. Il Teatro deve essere un riferimento, un riferimento per il quartiere in cui si trova, per la città in cui agisce, per le persone a cui si rivolge, altrimenti per chi fai teatro? Per i critici? Per i casting? Deve avere un forte collegamento con il territorio in cui si trova fisicamente, in caso contrario diventa pericoloso e si rischia di parlare solo a se stessi. Il Teatro è un lavoro comune, della promozione, dell’ufficio stampa, dell’attore, del regista, un lavoro che si deve fare insieme. Non è certo facile trovare collaborazioni felici, ma bisogna anche andare a tentativi, provarci: balliamo, se fai il massimo cosa può succedere al peggio? Noi per questo progetto faremo tutto al meglio. Trovo che per i quarant’anni dell’Out Off sia molto interessante un’iniziativa di questo genere: tutto è stato molto casuale, dall’anniversario della morte di Anna Politkovskaja, all’incontro con l’associazione AnnaViva, ma è interessante notare come il fatto di aver strutturato il progetto abbia rafforzato lo spettacolo.

Era un'operazione che bisognava tentare: non ci può essere un Teatro così bello vuoto. Anche per questo abbiamo deciso di riempirlo quasi tutte le sere con iniziative collegate allo spettacolo: è un testo bello che porta con sé temi attuali e profondi, sarebbe stato un peccato non portarlo in scena, insieme a tutte le altre iniziative e alle persone che ad esse si sono dedicate.

Camilla Fava

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