Ripensando a Emily Dickinson: una conversazione con Elena Russo Arman
Per Elena Russo Arman Emily Dickinson è una grande passione, fin dall'adolescenza. Lei, attrice, regista e performer, ci racconta il suo percorso creativo, i suoi lavori e progetti, con uno sguardo particolare alla sua Dickinson (a cui sarà dedicata una performance il 15 dicembre)...
Tra tutte le donne e le bambine che hai interpretato si può trovare una sorta di continuità: sono donne, impossibilitate all’Amore, che devono affrontare una realtà crudele. Questi ruoli ti appartengono oppure sono stati in un certo senso imposti dall’esterno? Ritrovi, seppur nelle differenze, la continuità di cui parlavo?
La domanda è molto interessante, io non ci avevo mai pensato in maniera così razionale e ordinata. Considera che la maggior parte di questi ruoli mi sono stati affidati da registi che hanno un’immagine di me. Molti personaggi li ho interpretati per Elio De Capitani o Ferdinando Bruni, quindi appartengono ad un percorso di crescita e di conoscenza fatto con il gruppo del Teatro Dell’Elfo. Tra i primi ruoli con l’Elfo penso alla figlia di Petra in “Le amare lacrime di Petra Von Kant” di R. W. Fassbinder o a Roma B. di “I rifiuti, la città e la morte”, sempre di Fassbinder, un personaggio enorme per me: effettivamente queste sono donne con esistenze piuttosto tormentate, ma ritengo che l’aspetto interessante del lavoro di un attore sia poter spaziare tra le infinite possibilità dell’esistenza, nel bene e nel male. Detto ciò, quanto della mia storia personale finisca per contribuire alla costruzione di un personaggio, non vorrei mai svelarlo completamente, fa parte del mestiere. La tua storia, la tua famiglia, i luoghi in cui ha vissuto, le persone che incontri, quello che leggi, i film, tutto questo e molto altro crea un archivio in continua crescita, dal quale attingere per lavorare. E’ un mestiere che ti costringe a fare i conti con una serie di fragilità, di blocchi, di paure e devi cercare di accettarle. Nello stesso tempo l’uso della voce, del corpo, il linguaggio dei gesti, sono una sorta di filtro in grado di salvarti. La difficoltà principale sta nel mantenere una freschezza nella ripetitività alla quale il teatro costringe durante le repliche di uno spettacolo. Ad esempio Cate in “Blusted” di Sara Kane è una ragazza di una fragilità incredibile che fa un percorso molto doloroso. Senza la tecnica sarebbe davvero impossibile restituire con la stessa intensità ogni sera la violenza subita, il dramma di quel personaggio. Al tempo stesso la tecnica ti permette di affrontare con un certo distacco quell’esistenza tragica che, se troppo interiorizzata, potrebbe distruggerti emotivamente. Per tornare al mio personale percorso di crescita, negli ultimi anni mi sono dedicata a progetti miei, quindi alcuni dei personaggi che mi sono trovata ad affrontare come attrice sono stati scelti da me: Emily Dickinson in “La mia vita era un fucile carico” è uno di quelli. Seppur differenti tra loro, tutti i personaggi che interpreto si portano dietro il bagaglio di esperienza personale e professionale che accumulo col passare del tempo. Certo ci sono ruoli che sento più vicini di altri: il lavoro su Emily Dickinson mi appartiene più di altri.
Tra i tuoi ultimi progetti c’è stato “Shakespeare a merenda", ora tornato in scena all'Elfo Puccini...
(Ride) All’Elfo non c’è ancora una vera e propria stagione dedicata al teatro per ragazzi, dunque ho pensato di realizzare uno spettacolo che avesse quelle caratteristiche. Sono stata molto felice e confesso anche molto sorpresa del risultato, che ha superato di molto le mie aspettative... ora è tornato in scena all'Elfo fino al 22 novembre! L’idea di partenza mi è venuta pensando a quando mi sono trovata da attrice a recitare testi di Shakespeare spesso di fronte a ragazzi che ignoravano l’identità di quell’autore e il contesto in cui quel teatro aveva luogo. Il teatro shakespeariano è un teatro senza tempo, che si presta ad essere letto e interpretato in infiniti modi e ad essere rivisitato profondamente. Il pubblico assiste alla messa in scena delle sue opere attraverso la visione di un regista e spesso, soprattutto il pubblico più giovane, ignora il periodo storico in cui quelle opere sono state scritte e rappresentate. “Shakespeare a merenda” è una lezione di Storia elisabettiana travestita da spettacolo. I ragazzi assistono alle avventure e disavventure di Mary, la sarta del Globe Theatre e apprendono così molte informazioni storiche, ma al contempo sono di fronte ad un’attrice che lavora con oggetti di scena molto semplici che con fantasia e soprattutto magia teatrale, si trasformano in altro. Per me è stata un’esperienza molto interessante e utile che mi ha messo in contatto diretto con il pubblico dei giovanissimi e non solo! Pensa che alla fine dello spettacolo, anche tra gli spettatori adulti, qualcuno mi ha confessato di non aver mai saputo che nel teatro elisabettiano le donne non potevano recitare!
Il lavoro per “La mia vita era un fucile carico” è stato molto lungo, oltre due anni, e articolato: dalle performance con le opere di Maria Luisa Carlini (2012), passando per il viaggio ad Amherst, fino allo spettacolo vero e proprio. Quale passaggio hai amato di più nella sua realizzazione?
Quando ho deciso di fare uno spettacolo su Emily Dickinson sapevo già che non avrei voluto raccontare la sua storia rappresentando l’immagine di una donna dell’Ottocento in un contesto ottocentesco. La cosa che mi interessava mettere in scena erano i suoi versi, tanto che lo spettacolo avrebbe senso di esistere anche solo in versione audio. Il lavoro è stato infatti pensato come una partitura in cui le parole e il suono, realizzato da Alessandra Novaga, in scena con me, si intrecciano durante lo spettacolo. Vorrei che la musica fosse sempre composta per lo spettacolo ed eseguita dal vivo, che nascesse insieme allo spettacolo. “La mia vita era un fucile carico” non sarebbe esistito diversamente. Per me quei versi corrispondevano a determinati suoni e intorno a questo si è svolto il lavoro di ricerca insieme ad Alessandra. Anche per “La palestra della Felicità” le musiche di Alessandra sono nate insieme allo spettacolo, durante la sua costruzione, durante le prove e le repliche. Trovo che la musica in scena suonata dal vivo sia meravigliosa! Per lo spettacolo abbiamo scelto la chitarra elettrica perché quelle parole, e non è un caso che io usi il microfono, sono parole che hanno un suono potente. Ci sembrava più interessante rappresentare una donna fuori dal suo tempo per far scaturire la forza dei suoi versi senza tempo. Quello che volevo passasse agli spettatori è la forza delle sue parole che lei stessa definisce come il suo lascito a noi. La sua poesia suscita in me immagini e suoni che ho tentato di realizzare nello spettacolo che non si riferisce all’Ottocento perché ritengo Emily non appartenente a quel secolo. La reclusione, il fatto di non sposarsi sono state scelte consapevoli, delle rinunce che lei ha fatto per potersi occupare della sua professione: scrivere poesie. Ha scelto addirittura di non pubblicare, probabilmente perché la spaventava l’idea di confrontarsi con un mondo che tutto sommato non la comprendeva. Ho letto una biografia molto interessante di Lyndall Gordon dove si ipotizza che lei fosse affetta da epilessia. In questa prospettiva si possono leggere certi aspetti della sua vita e certe sue poesie dove descrive choc mentali, il cervello che si spacca, l’impossibilità di muoversi, il vedersi da fuori, la perdita di coscienza. Io trovo che nel suo stile spesso astratto Emily riesca ad essere molto concreta: il fine dello spettacolo era tradurre quell’astrazione in immagini. Le performance realizzate da me e Alessandra hanno creato un percorso che ha preso una strada completamente indipendente anche dallo spettacolo. Probabilmente non riprenderemo lo spettacolo molto presto. Riporre gli oggetti di scena ha assunto un carico emotivo che non immaginavo, e su questo è stata improntata l’ultima performance che abbiamo realizzato. Ha avuto luogo in uno spazio che non prevedeva la presenza di pubblico, il nostro coinvolgimento emotivo si è rivelato molto forte. Continueremo a realizzare le performance ogni 10 dicembre e ogni 15 maggio (compleanno e anniversario della morte di Emily), ma certo l’ultima performance è stata una specie di “arrivederci”.
Cosa ritieni che la poesia di Emily, riletta oggi, possa dare alla nostra società?
Credo che la sua poesia aiuti il lettore ad entrare in contatto con la propria intimità, ma forse questo è il compito della poesia in genere, cioè esprimere l’inesprimibile. Credo che nei versi di Emily ci sia spiritualità e si vada oltre la Religione. Emily, che apparteneva ad una famiglia molto credente, non accettava pedissequamente i dogmi imposti e, nonostante un’educazione rigida, aveva ottenuto una certa libertà in questo senso, la sua reclusione per esempio le permetteva di non andare a messa. Nei suoi dibattimenti con Dio si trovano dei versi molto violenti. Sicuramente lei mette molto in contatto con una parte intima e spirituale. Io mi sono avvicinata a Emily Dickinson durante l’adolescenza, in anni in cui mi interrogavo molto sulla spiritualità. Crescendo ho apprezzato altri aspetti della sua scrittura, però in quegli anni ciò che era importante per me era il fatto che Emily avesse intrapreso un percorso creativo in totale autonomia. Per quanto riguarda il femminismo, lei non si è mai impegnata per l’emancipazione femminile nonostante quelli fossero anni in cui, in America ed Europa, fiorivano molti movimenti di quel genere. Era sicuramente informata sulle cronache dell’epoca, ma la sua emancipazione è stata individuale: ha attuato una forma di ribellione domestica molto originale. Aveva inoltre uno sguardo particolare nei confronti della Natura, era attenta alle piante e a tutti gli esseri viventi che la circondavano, dagli insetti al suo amato cane Carlo. Queste attenzioni nascevano forse anche dalle sue letture di autori come Thoureau, Emerson e altri, che teorizzavano una sorta di pre-ecologismo, e questo è un aspetto molto contemporaneo. Era anche una donna con una sensualità molto vivace, nonostante il suo aspetto virginale: le sue pulsioni erotiche sono evidenti nei suoi versi e nelle lettere, esplicite e molto libere, anche se è probabile che nessuno dei suoi grandi amori si sia mai concretizzato in una vera e propria storia. I suoi scritti hanno subìto quasi certamente delle censure da parte dei suoi eredi; le sue poesie d’amore dedicate alla cognata Susan sono state trascritte cambiando il pronome dal femminile al maschile proprio per mettere a tacere questo lato della sua personalità poco conforme ai dettami di quell’epoca. Emily è stata spesso ingabbiata in uno stereotipo: l’immagine di una zitella segnata da una profonda delusione amorosa, che cura il giardino, prepara torte, cuoce il pane e parla agli uccellini. La Dickinson ha cercato per tutta la vita un confronto artistico e intellettuale, trovandolo per esempio in Thomas Higginson, il direttore di un giornale con cui aveva una corrispondenza fittissima, a cui spediva le sue poesie per avere in cambio un giudizio.
Né lui né altri intellettuali suoi contemporanei hanno compreso la grandezza della sua opera, giudicandola troppo fuori dagli schemi. Il viaggio ad Amherst mi è servito molto a comprendere il contesto in cui lei scriveva e viveva: poche case simili, con il giardino, la bandiera americana appesa alla finestra, tranquille. C’è il College e qualche altro edificio nuovo, ma nel complesso le costruzioni moderne sono pochissime: è il classico paesino in cui vivono poche anime. Io credo che lei non avesse altre possibilità che intraprendere quel percorso: evitando di crearsi una famiglia, una delle poche scelte che le erano permesse, ha potuto fare ciò che desiderava. Se in più si considera che aveva anche problemi fisici come l’epilessia ci si rende conto che lei ha fatto veramente una scelta di emancipazione che ad oggi mantiene ancora tutta la sua forza. Ora io invece sono di fronte ad un passaggio: per un po’ metterò da parte Emily Dickinson, che ha occupato e occupa ancora molto spazio di me e delle mie ricerche, per occuparmi di qualcosa di nuovo.
Concludiamo allora con un’apertura… che progetti hai per il futuro?
Sia con Ferdinando Bruni e Francesco Frongia che con Elio De Capitani sarò coinvolta in due progetti esaltanti dove interpreterò dei ruoli che mi piacciono molto. Uno sarà su Brecht, “Mr Puntila e il suo servo Matti”, e sono sicura che sarà molto divertente! Sarò in scena all'Elfo Puccini dal 30 novembre al 31 dicembre! L’altro è un testo di Simon Stephens dal titolo ”Harper Regan” e sarà una bella e intensa avventura. Io invece sto iniziando a mettere in cantiere un nuovo progetto (so già cos’è, ma preferisco non dirlo per scaramanzia!). In questo progetto sarò ancora in scena, ma probabilmente non sarò l’unica attrice… mi sono divertita molto a lavorare con Cristian Giammarini e con Valentina Diana in “La palestra della Felicità”, quindi vorrei ripetere un’esperienza di quel genere… poi, insomma, lavorare da soli non è molto piacevole, ed è molto più stimolante avere collaboratori con cui confrontarsi e continuare a crescere!
Camilla Fava