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Ponti tra Giappone ed Europa in mostra al MUDEC di Milano

Il Giappone e il suo fascino sono il leitmotiv delle due nuove mostre del MUDEC di Milano.

Leon-Francois Comerre, Ritratto della signorina Achille-Fould in abito giapponese

Dal 1 ottobre 2019 al 2 febbraio 2020, presso lo spazio espositivo di Via Tortona, sono aperte le due mostre, complementari l'una dell'altra, Impressioni d'Oriente e Quando il Giappone scoprì l'Italia. Curate da Fleming Friborg e Paola Zatti la prima, e da un comitato scientifico presieduto dal professor Corrado Molteni la seconda, entrambe sono promosse da Comune di Milano e (solo la prima) da 24 Ore Cultura.

Entrambe le esposizioni, secondo la linea culturale e antropologica del MUDEC, intendono presentarci quelli che sono stati i ponti e gli scambi, le interazioni e le assimilazioni nel settore artistico e culturale, tra l'Europa e il Giappone, specialmente dopo quella fatidica data del 1854, quando, con il trattato di Kanagawa, si pose fine allo storico isolamento del Sol Levante, aprendo ai traffici commerciali e mercantili con l'Occidente, ma anche alle influenze culturali e artistiche europee e statunitensi. 

Impressioni d'Oriente intende essere un'indagine sul fenomeno del Giapponismo nell'Arte e nella Cultura europee. Con questo termine si intende più che un fenomeno culturale, una vera e propria moda, nata come conseguenza del crollo della politica isolazionista del Giappone e divenuta, poi, studio scientifico da parte degli etnografi e osservazione diretta dei manufatti nipponici per gli artisti occidentali. Questa tendenza pervase, in modo particolare, la Francia, soprattutto la Parigi cosmopolita dove vivevano artisti di ogni nazionalità, ma anche l'Italia: in entrambi i Paesi, il Giapponismo, così come l'interesse per l'antico Egitto e per quelle che Ceram chiama "civiltà sepolte", finì per sfociare dapprima nel simbolismo e, poi, nell'eclettismo da cui sarebbe nata l'Art Nouveau.

Attraverso 170 opere, la mostra traccia una storia di questo fenomeno, partendo proprio dagli anni del trattato di Kanagawa, quando la conoscenza del Giappone era ancora qualcosa di fantastico, frutto di letture romanzesche (e romanzate) di sapore romantico e storicista, legate alla figura di Marco Polo, che, per primo, parlò, nel suo Milione, di un arcipelago ancora più a Est della Cina chiamato "Cipango". Prova ne è la tela di Tranquillo Cremona, che raffigura l'esploratore veneziano mentre illustra le sue scoperte, accanto ad alcuni dipinti coevi che rappresentano, ancora, una certa confusione tra giapponeseria e cineseria. Dopo Kanagawa tutto cambiò: con l'apertura dei porti nipponici, in primis quello di Yokohama, il Giappone iniziò ad arrivare in Europa e il Vecchio Continente nel Sol Levante. Ciò fu la base storica per la nascita dei primi grandi musei dedicati alla civiltà giapponese e per gli studi a essa dedicati: agli occidentali quella nipponica si presentò subito come una società molto chiusa, conservatrice, per certi versi ancora feudale e tradizionalista, ma con un acuto senso estetico e con vere e proprie scuole di illustratori, tra cui spiccarono Utamaro, Hiroshige, Hokusai e Kuniyoshi, che suscitarono grande curiosità.

Si può tranquillamente affermare che il Modernismo, da cui scaturirono fenomeni come il Liberty, abbia attinto a piene mani dalla fascinazione che il Giappone esercitò sugli artisti che lavorarono, sia in Francia che in Italia, dal 1860 alla Prima Guerra Mondiale. Per questo motivo il Giapponismo non è una corrente ma una vera e propria moda, e le opere in mostra lo testimoniano. Non erano solo le teorie estetiche dell'Arte nipponica ad affascinare gli artisti occidentali, ma anche i formati: non a caso, sia Gauguin che Cezanne si confrontarono con il Giappone lavorando, con soggetti orientali, alla decorazione di ventagli, che le donne nipponiche amavano e consideravano oggetti artistici. Alcuni di questi sono esposti in mostra. Così come alcuni dei grandi grafici giapponesi dimostrarono una certa conoscenza del disegno ottocentesco europeo nelle loro incisioni raffiguranti i paesaggi dell'arcipelago, il Monte Fuji o le città come Kyoto o Edo, la futura Tokyo. Anche l'idea di abbigliarsi alla giapponese divenne una moda, come prova il bellissimo ritratto del francese Leon-Francis Comerre, che raffigurò una bellissima ragazza in abito nipponico e ventaglio, su quello sfondo rosso che già i romantici amavano per le loro raffigurazioni turchesche. Il Giapponismo pervase tutti i grandi artisti di fine secolo, dagli Impressionisti, come provano, in mostra, le prove grafiche di Manet, fino a Van Gogh, il cui Pére Tanguy divenne simbolo della fascinazione per il Sol Levante, passando per Rodin e Toulouse-Lautrec, la cui grafica pare fortemente influenzata dalle prove di Hiroshige e di Hokusai, come testimonia il bellissimo Fantino esposto in mostra. E non ne furono esenti nemmeno i post-impressionisti del calibro di Serusier, come ben evidenziato dalla sua contadina bretone ritratta con gli occhi a mandorla. 

Il Giapponismo investì anche l'Italia, ma i primi tramiti furono degli artigiani, chiamati "semai", per lo più lombardi, che raggiunsero il Sol Levante tra il 1872 e il 1880, per esigenze commerciali, legate al traffico di bachi da seta, ma che furono profondamente colpiti dalla Cultura nipponica e dalle sue rappresentazioni. Il seguito avvenne per mano di due agiati milanesi, Enrico Cernuschi e il conte Giovanni Battista Lucini Passalacqua, i quali, per primi, iniziarono a raccogliere manufatti giapponesi per catalogarli ed esporli nelle loro collezioni. Lucini ne avrebbe aperta una a Milano alla fine del secolo, ma la più famosa rimase quella di Cernuschi che, a Parigi, raccolse una quantità enorme di oggetti nipponici, cinesi e coreani. Questa raccolta. nel 1896, passò alla città: così nacque quello che, ancora oggi, è un punto di riferimento per gli appassionati d'Arte Orientale, il Museo Cernuschi. Fu proprio costui a far scoprire la sua collezione ai grandi artisti italiani allora presenti nella capitale francese, in particolar modo a Giuseppe De Nittis, il pittore pugliese che, più di ogni altro, si avvicinò all'Impressionismo. Alcune delle sue vedute esposte in mostra testimoniano una grandissima fascinazione per le stampe con le vedute del Monte Fuji di Hokusai, specie nel taglio. A essere travolti dall'onda giapponista, però, furono anche altri artisti di origine meridionale, da Francesco Paolo Michetti al siciliano Lojacono, così come il trentino Segantini e il ferrarese Previati, che fecero uso di tecniche luministiche orientali per i loro quadri di sapore simbolista. A rimanere fulminato dal Giappone fu anche il maggiore pittore Liberty italiano, quel Galileo Chini che affrescò i palazzi di Bangkok. I suoi quadri esposti in mostra, di grande formato, raffigurano già scelte estetiche floreali con tocchi luministici e di colore tipicamente nipponici.

La conclusione della mostra è affidata a uno scultore siciliano, Vincenzo Ragusa, che giunse in Giappone nel 1875 come consulente, insieme al pittore reggiano Antonio Fontanesi, per la formazione dei docenti della nuova Scuola Tecnica di Belle Arti di Tokyo. Ragusa fu colpito in tal modo dall'Arte e dalla Cultura giapponesi da stabilirsi a Tokyo, iniziando a insegnare la tecnica di fusione del bronzo. Ragusa ebbe, come modella, una ragazza di nome Otama Kiyohara che, dopo il suo ritorno a Palermo, nel 1882, sposò nel 1889 con il nome di Eleonora dopo la conversione al Cattolicesimo. I due raccolsero circa quattromila oggetti che, una volta tornati in Italia, donarono al Museo Pigorini di Roma, e contribuirono a creare, a Palermo, una scuola di Arte applicata sul modello di quelle inglesi di Morris. Chi meglio di Ragusa può rappresentare il ponte tra Italia e Giappone, tema principale della mostra? E poi, anche il suo amore per Otama ha un grande parallelismo culturale nella vicenda di Pinkerton e Cio Cio San nella coeva Madama Butterfly di Giacomo Puccini.

Il seguito è rappresentato dalla mostra Quando il Giappone scoprì l'Italia, imperniata su due epoche diverse. La prima, tra la fine le XVI secolo e l'inizio del XVII , quando l'ordine gesuita, nato per volontà di un ex capitano di ventura basco, Ignazio di Loyola, con lo scopo di convertire i pagani al Cattolicesimo nelle terre da poco esplorate, soprattutto Asia e Sud America, iniziò a penetrare anche in Giappone, con le predicazioni di un altro famoso membro della Compagnia di Gesù, Francesco Saverio, a partire dal 1549, grazie alla mediazione dei cattolicissimi portoghesi, che riuscirono a vincere la diffidenza dei potentati locali del Sol Levante. Fino al 1639, in Giappone, la presenza gesuita si fece sentire, e molti furono i convertiti, come provano numerosi quadri esposti nelle chiese europee dell'ordine. Iniziò una produzione di manufatti nipponici ma con tratti occidentali e con valenza spesso cristiana e liturgica, chiamata Arte Nanban (che significa "dei barbari del Sud"), mentre, negli stessi anni, uno dei coordinatori della missione gesuita in Giappone, Alessandro Valignano, organizzò un viaggio a Roma per alcuni ragazzi della classe aristocratica nipponica convertiti al Cattolicesimo. Tra questi c'era il protagonista della sezione, Ito Mancio. Considerati degli ambasciatori dai giapponesi, i ragazzi visitarono, prima di Roma, anche Milano e Venezia, nel 1585. Qui, con ogni probabilità, Ito venne ritratto da Domenico Tintoretto, figlio del grande Jacopo, nel dipinto esposto in mostra. Una seconda ambasciata avverrà nel 1615, ma, successivamente, i rapporti tra i gesuiti e il Giappone si deteriorarono fino a vere e proprie persecuzioni, come testimoniato dall'incisione raffigurante le crocifissioni di massa dei convertiti, sullo stesso argomento affrontato, da Martin Scorsese nel film Silence nel 2016. Nel 1639 i Gesuiti vennero cacciati dall'arcipelago in seguito alla chiusura dei porti da parte dello Shogun, il quale autorizzò la presenza commerciale esclusivamente agli olandesi. Furono le loro navi a trasportare i manufatti che continuarono ad assicurare gli scambi tra Oriente e Occidente, sfidando la politica di chiusura che sarebbe durata fino al trattato di Kanagawa del 1854. 

 La seconda parte ruota intorno a colui che contribuì a recuperare la memoria dell'ambasciata di Ito Mancio e a raccogliere molti oggetti giapponesi in una collezione senza pari per la città di Milano: il conte Giovanni Battista Lucini Passalacqua. Il nobile milanese riuscì a raccogliere molteplici oggetti sia dei secoli precedenti che recenti grazie ai famosi "semai", quei commercianti-artigiani della seta che percorrevano in lungo e in largo il Giappone. Nel 1871, Lucini realizzò un viaggio in Oriente insieme a uno di questi commercianti, Ferdinando Meazza, in cui raccolse numerosi oggetti che, originariamente esposti nella sua villa a Moltrasio, sul Lario, passarono, poi, al Comune di Milano. L'allestimento della mostra ci mette in evidenza i numerosi oggetti raccolti da Lucini secondo l'ordinamento con cui si pensa fossero esposti nella villa sul Lago di Como, accostati ad alcune foto d'epoca della dimora, messe a disposizione dai suoi eredi. Gli oggetti in mostra, per lo più rituali, appartengono, in buona parte, alla fine del periodo feudale e comprendono soprattutto bronzi, alcuni dei quali tradizionali nipponici, affiancati ad altri di sapore occidentale del periodo Meiji, la dinastia che contribuì, più di ogni altra, all'apertura del Sol Levante all'Occidente, tema intorno a cui ruotano entrambe le mostre.

Impressioni d'Oriente. Arte e collezionismo tra Europa e Giappone.
Quando il Giappone scoprì l'Italia. Storie di incontri (1585-1890)
MUDEC, Via Tortona 56, Milano
Orari: lunedì 14.30-19.30; martedì-mercoledì-venerdì-domenica 9.30-19.30; giovedì-sabato 9.30-22.30
Ingressi: intero 14,00 Euro; ridotto 12,00 Euro

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