Quando Milano era al centro del mondo: arte lombarda dai Visconti agli Sforza in mostra a Palazzo Reale
Tutto cominciò nel 1958, quando un personaggio di nome Roberto Longhi curò una grande mostra a Palazzo Reale sull'arte lombarda dalla fine del Trecento ai primi del Cinquecento, ispirandosi al grande saggio del 1912 del suo maestro, Pietro Toesca, sull'ouvraige de Lombardie, l'officina creativa milanese e pavese durante l'epoca viscontea e sforzesca. Ora, dopo mezzo secolo di distanza, Palazzo Reale di Milano ospita, dal 12 marzo al 28 giugno 2015, un'altra grande mostra, curata da Mauro Natale e Serena Romano sul medesimo tema e palesemente ispirata alla precedente, come provano le fotografie esposte a fine percorso.
Quando Milano era una capitale: mai come nel periodo dei Visconti e degli Sforza, la nostra città fu il crocevia politico e culturale d'Italia, con una fama che nulla invidiava a Firenze e a Venezia. Dal 1277, anno in cui Matteo sconfisse a Desio Napoleone Torriani, i Visconti dominarono Milano fino al 1447, quando si estinse Filippo Maria, dando alla città personaggi politici del calibro di Bernabò (famoso il suo ritratto a cavallo scolpito da Bonino da Campione, oggi al Castello Sforzesco) e, soprattutto, di Gian Galeazzo, grande mecenate, alla cui morte, nel 1402, il ducato vero e proprio andava da Vercelli a Bergamo e da Como all'Appennino Parmense, mentre gli Stati satelliti si estendevano da Belluno a Pisa.
Un'estensione senza pari, che induceva i Visconti a paragonarsi agli imperatori romani! Suo figlio Filippo Maria fece sposare la figlia illegittima, Bianca Maria, a un condottiero di origini romangnole di nome Francesco Sforza: essendosi estinto l'ultimo Visconti senza figli maschi, il Ducato passò, così, agli Sforza, che lo ressero fino al 1499, quando i francesi cacciarono e deportarono in Francia il più grande mecenate della storia milanese, Lodovico il Moro, e poi, dopo la "liberazione" post-battaglia di Melegnano, dal 1512 al 1515, quando i francesi, morto l'ultimo Sforza Francesco II senza figli maschi, si ripresero Milano.
E' facilissimo immaginare quanto Milano avesse la necessità di essere (e apparire) come una capitale ricca e sontuosa, una seconda Roma mediopadana, nell'ottica sforzesca e viscontea, al centro delle strade che dalla Francia andavano verso Venezia e dal Nord Europa scendevano nell'Urbe governata dal Papa. Da qui le pretese mecenatistiche dei due casati, che fecero di Milano un centro nevralgico dell'arte italiana, dall'arrivo di Giotto, già anziano, sotto Azzone Visconti, a quello di Leonardo da Vinci sotto Lodovico il Moro, passando per Bramante e molti altri artisti toscani o di formazione fiorentina.
La mostra è perfetta espressione del termine ouvraige usato da Toesca: essa raccoglie non solo pittura, ma anche scultura, miniatura, oreficeria, arte vetraria e bibliofilia a riprova del fascino e della magnificenza che fecero trionfare, tra ori e porpora, le Arti alla Corte milanese per duecento anni, forgiando un senso di identità culturale meneghina e lombarda. Più di duecento sono i pezzi esposti, provenienti da mezzo Mondo: si parte con una sala dedicata ai ritratti, su medaglioni a bassorilievo, dei più grandi committenti e mecenati che i Visconti e gli Sforza diedero alla città, da Gian Galeazzo ad Azzone Visconti, da Francesco Sforza a Lodovico il Moro, per poi passare, subito, ai primi anni del dominio visconteo, con la presenza di Giotto per San Gottardo in Corte, e di altri artisti giotteschi, tra cui il ticinese Giovanni da Milano e il fiorentino Giusto de' Menabuoi.
Spicca la presenza di un altro artista forestiero, Giovanni di Balduccio, pisano, che, insieme a Giotto, diede un impulso internazionale all'arte lombarda con la sua influenza di Nicola Pisano. In questi anni si fondarono biblioteche, la più famosa delle quali a Pavia (come provato dagli splendidi codici miniati esposti), si costruirono nuovi cantieri e se ne rinnovarono molti, ma la magnificenza artistica si esprime, in mostra, nelle sculture di Bonino da Campione e nelle splendide vetrate, uniche del Trecento, provenienti da Santa Maria Matris Domini a Bergamo, ma anche nelle opere di Giovanni di Balduccio, che allontanarono l'arte lombarda dal Medioevo per proiettarla verso il Rinascimento.
La seconda parte è dominata dalla figura di Gian Galeazzo Visconti, il quale, nel 1389, fondò la Fabbrica del Duomo di Milano e, poco dopo, nel 1396, la Certosa di Pavia: se il primo cantiere doveva essere il trionfo della dinastia, il secondo venne concepito come suo pantheon. Duomo e Certosa furono sempre rivali ma spesso complementari nell'attirare maestranze straniere e avvicinare il linguaggio degli artisti locali alle novità internazionali. Del Duomo sono esposte alcune vetrate e sculture poste in alto sui piloni, tra cui alcuni angeli di un artista tedesco. I rapporti di Gian Galeazzo con Parigi e le Fiandre, ma anche con la Mitteleuropa contribuirono a gettare le basi per quello stile internazionale, espresso dai codici miniati dei Libri d'Ore di Giovannino de' Grassi, dalla scultura di Jacopino da Tradate e dalle tavole di due grandi come Michelino da Besozzo (di cui sono esposte varie opere, tra cui la splendida Madonna di Verona) e Gentile da Fabriano (la Madonna e santi di Pavia). Segue una parte dedicata al figlio di Gian Galeazzo, Filippo Maria, sotto cui iniziò una radicale crisi dell'arte a Milano, con una diaspora delle personalità convenute sotto suo padre, ma che non manca di capolavori, come i Tarocchi e il polittico dell'Incoronazione della Vergine (a Cremona e Denver) di Bonifacio Bembo, massima espressione di questo periodo.
La parte successiva si sviluppa sul momento di passaggio tra Visconti e Sforza, sulla committenza di Francesco e sul mecenatismo di Galeazzo Maria. Il primo Sforza spostò definitivamente la capitale da Pavia a Milano, facendo giungere da Brescia, all'insegna della rottura con il passato, il più "toscano" degli artisti lombardi, Vincenzo Foppa. Costui mescola l'influenza di Mantegna con le novità fiamminghe e il substrato lombardo, come provato dalla tavola proveniente da Brera, inserita in una cornice architettonica memore della lezione ferrarese di Ercole de' Roberti. Sono presenti anche altri protagonisti della scena artistica del momento, da Zanetto Bugatto (allievo di Roger Van der Veyden) con un polittico ricomposto eccezionalmente alla bottega trevigliese Butinone-Zenale e al naturalismo ammiccante alle Fiandre del piemontese Bergognone, attivissimo nella decorazione della Certosa, oltre a sculture lignee della proilifica officina Del Maino e a opere del pavese Donato de' Bardi.
L'ultima sezione è dedicata agli anni di Lodovico il Moro e al tramonto del fasto di Milano nella cultura e nelle arti: anni di cambiamento urbanistico e delle committenze cittadine. A Milano arrivano Bramante, Filarete e Leonardo da Firenze, mentre gli artisti locali si "toscanizzano", elaborando soluzioni personali come il semplice plasticismo della pittura di Bramantino. Proprio in questo periodo, Milano iniziò a "esportare" i propri prodotti, i lavori delle sue botteghe artistiche e artigiane, e a produrre freneticamente, in concorrenza con le altre corti padane e del Nord Italia, da Torino a Venezia, legate agli Sforza da motivi dinastici, economici e politici. Notevoli sono i rapporti con Mantova e Ferrara, come provato dalla scultura, in particolare quella del Bambaia, ma anche del pavese Giovanni Antonio Amadeo, affascinato dalla romanità quanto dalla lezione dello "stiacciato" di Donatello, come provato dai bassorilievi con storie di Cristo. In pittura trionfa ancora lo stile di Foppa, Butinone e Bergognone, ma le opere di questa sezione sono più vicine al linguaggio toscano, naturalistico e semplice, che un altro pavese, Carlo Braccesco, farà conoscere in Liguria. Sono esposte, tra l'altro, anche alcune vetrate eseguite su cartoni del celebre artista bresciano per il Duomo. L'ultima sala della mostra, conclusione ideale di un percorso che mette in parallelo Lodovico il Moro e Leonardo, entrambi morti esiliati in Francia, evidenzia, negli anni dopo il 1512, l'assorbimento della lezione del genio vinciano da parte di artisti come Giovanni Antonio Boltraffio, Amborgio de Predis e un anziano Zenale, agli albori di quella pittura "dei leonardeschi", che affascinerà i nuovi padroni francesi della vecchia capitale viscontea e sforzesca.
La mostra, la prima grande retrospettiva a Milano per Expo, coprodotta da Comune di Milano e Skira Editore, che si occupa del catalogo, si pone in un ideale percorso che segue Bramante a Brera e precede Leonardo a Palazzo Reale, la quale inaugurerà ad aprile, a riprova di quanto il Rinascimento abbia forgiato l'identità artistica e culturale milanese.
Arte lombarda dai Visconti agli Sforza