Fabrizio Fontana, l'assoluta libertà del palco per un cabarettista artigiano
«Ciaooo! Mi raccomando, tre O». Un paio di occhiali da vista, delle bretelle nere e una camicia bianca. Questa una delle maschere più famose di Fabrizio Fontana, in arte James Tont o Capitan Ventosa, che ha animato la seconda serata di Risate da Oscar del teatro Oscar di via Lattanzio, la rassegna organizzata dalla KarmArtistico di Francesco Ruta. Bocconiano, animatore e infine comico: il cabaret, per lui, è la massima espressione di libertà, lo «sfogo positivo» per fuggire alla gabbia quotidiana di impegni e orari.
Cosa aspettarsi da questo spettacolo?
«Mi imbarazza parlare del mio spettacolo perché sembra una cosa seria. In effetti lo è, perché la comicità è una cosa seria. Parlerò di me, di rapporti sociali, di emozioni e dei pezzi storici che mi hanno emozionato quando li ho creati: da Fabrizio a "Le so tutte!", una citazione di Capitan Ventosa, James Tont e pezzi storici che ho fatto solo sul palco e non in televisione».
Questo spettacolo l’hai definito un'evoluzione in corso...
«Il mio non è uno spettacolo focalizzato sulla risata e sull’applauso, ma sul fatto che possa stare bene facendolo. È un rischio perché è più facile a ritroso fare delle battute scontate, volgari: è facile così raggiungere il pubblico perché prendi il nazional popolare. Io ho sempre fatto qualcosa che sentivo perché avevo voglia di dirlo, come i bambini: "Mi piace tantissimo, te lo voglio dire". Parlo con quello che sento, in modo semplice ma non banale: utilizzo un canone alto perché mi piace, ho dovuto pensarci e mi dà gusto oppure improvviso. Per questo è un’evoluzione. Parto facendo me, non è una pratica che succede spesso: vivendo quell’ora in quella maniera me la voglio godere. Il senso è: io lo spettacolo lo so, non è curioso rifare una cosa che è uguale. È curioso invece rischiare improvvisando per vedere cosa si crea. È meno complesso non rischiare, ma il brivido positivo dov’è? Che gusto c’è?».
Come sono nati i tuoi personaggi più famosi e qual è il rapporto che hai con loro?
«Il rapporto è bellissimo perché sono sempre io, James Tont sono io con gli occhiali. Molti comici guardano la realtà e mutuano i personaggi da quello, ispirandosi a qualcuno. In questo caso invece sono io che sono così: metto una maschera che però sono io, una maschera che amplifica quello che sono, è una maschera non maschera. Per esempio, James Tont è fragile, candido. Una mia parte è fragile e candida, evidentemente quando l’ho creato ho dato forza ai difetti non ai pregi. "Le so tutte!", invece, essendo io curioso di vita valorizzo il fatto che mi piace sapere un po’ tutto. Lo spettacolo è una relazione fra persone, per questo mi piace, se ho qualcosa da dire lo dico. Se piace bene, si stabilisce una connessione che non è quella del cellulare, è vera. C’è una trasmissione di emozioni sotto un punto di vista comico, è vedere una persona com’è, normale e un po’ strana».
Non hai paura di essere ingabbiato nei tuoi personaggi?
«Altri direbbero: "Sì, lo sono, sono costretto a rifare sempre la stessa cosa". La mia risposta è: "No, se hai altro da dire". Quasi sempre esce di più Fabrizio che i personaggi. Poi quando faccio James Tont sono felicissimo perché mi farà sempre ridere, è una parte di me e lo rifaccio con gusto».
Avendo lavorato sia su un palcoscenico che in tv, qual è il tuo rapporto con i due?
«Il teatro è più bello perché è live. Tutte le emozioni sono amplificate da me e dal palco, è una sorta di rito che va avanti dai greci in poi, è incredibile. Perché uno deve andare a vedere una persona che lo fa ridere? Perché mi ha fatto stare bene. È strano il meccanismo umano che fa succedere questa cosa, è forte e sempre curioso. In tv, soprattutto per quanto riguarda Zelig, il comico è soltanto mediato dallo schermo, è leggermente più indiretto. Ma se tu trasmetti emozioni, queste passano attraverso lo schermo. Il cabarettista sta all'attore come il cantautore all'interprete».
Per te cos’è il cabaret?
«Un'espressione personale, una mia parte che si esprime. E la parte che si esprime non è ingabbiata dal pezzo di cabaret. Poi lo diventa, dopo avrà dei paletti. Ma il bello è che quel tipo di parola, di frase, di tempi che potrò avere sono sempre diversi, ogni volta è la scoperta di un’altra mia parte, è essere completamente libero per poi mettere dei paletti perché sennò è anarchia totale. Io porto me stesso in scena: sei esposto davanti a persone che possono gradire o meno, ma è una forma di libertà. Nella vita reale sei schematizzato no? La somma di orari, impegni, ecc. fa sì che la tua indole poi si assuefaccia a quello che devi fare, tutto è ingabbiato. Sentendomi io leggermente ingabbiato, senza fare l’asceta, tendo ad avere un posto dove faccio quello che desidero, è uno sfogo positivo contro nessuno. Ho trovato un posto che mi fa stare bene. Come nella vita evidentemente sul palco sei più vulnerabile ma più protetto. Essere se stessi vale la pena, ma con quale tipo di barriere? Più barriere hai, meno vivi. Molti non se ne rendono conto e diventano un po’ Matrix, che non è qui sul palco ma nella vita. Io voglio andare a vedere cabaret: il cabaret è come il sole e Milano è un pochino grigia. Ma dove vai a vedere cabaret? In oasi come questa, uno Stargate.».
Qual è il ruolo della comicità?
«Ha avuto un percorso storico che andava da Tognazzi, Vianello, Drive In, Mai dire Gol, Zelig. I comici erano originali, quel tipo di pensiero che ha creato quel personaggio tu non l’avevi mai visto prima. La comicità ha dei valori oggettivi, poi va a gusto. Se sei originale, non usi leve banali come la volgarità, se sei vero. Oggi vediamo che spesso c’è volgarità, banalità, non c’è stupore. Pochissimi sono originali, seguono l’attualità banalizzandola. Ma non è più fatto live, è fatto qui dentro (indica il cellulare, ndr), tagliato montato. Le logiche di battute sono già state fatte miliardi di volte. La comicità è un’oasi, stiamo diventando come gli artigiani che fanno sedie a mano. La gente purtroppo da 7/8 anni si è abituata, vale essere volgare alle 21.30 in televisione. Forse fra un po’ diventeremo vintage e torneremo di moda, senza fare il catastrofista tutto è bypassato dal cellulare. Non è cabaret, in cui sei autore di te stesso, originale, vero».
Come ti sei approcciato al mondo del cabaret?
«Ho fatto prima l’animatore, ma non per limonare con le ragazze, mi piaceva esprimermi. Stiamo parlando del 1995, non c’era Zelig, c’era Mai dire gol ma in studio. Non sapevo esistesse il cabaret nei locali, che ha avuto il boom dopo Zelig, poi si è afflosciato come se fosse una moda. Facevo tutte le cose che mi piacevano: improvvisazione, l'animatore nelle discoteche, il karaoke, la voce in una piccola radio. Quando sono andato a vedere i comici, mi sono detto che avrei voluto essere lì anch'io. Andavo allo Zelig piccolino, ci entravano 30 persone, era grunge, sporco. Poi ho fatto la scuola di teatro, ho iniziato a fare cabaret con un altro animatore che mi faceva da spalla, ho continuato da solo, ho fatto laboratori di cabaret piccolissimi, bellissimi. Ho iniziato a fare i pezzettini che facevo a casa con la videocamera, guardavo i comici e cercavo di capire come funzionasse, senza copiarli. Dopo il provino a Zelig ho iniziato ad essere un po’ più conosciuto. Per fare questo ho mollato l'università a 26 anni, a due esami dalla laurea: dopo 8 anni mi avrebbero cancellato tutti gli esami quindi dopo 7 anni e mezzo sono tornato e a 34 anni mi sono laureato. Ai miei genitori, quando ho lasciato, ho detto che non avrei utilizzato quella laurea. Avevo fatto 30 esami, quello che dovevo imparare l’avevo imparato, se poi è funzionale avere un foglio di carta per lavorare nel mondo dell’economia ti laurei, altrimenti sei uno stupidone. Alla fine io sono emotivo ma determinato, chiudo la mia emotività in maniera funzionale».