Ne sono passati quaranta. Un bel po' da quel 1976 londinese così lontano eppure così vicino per quelli come me della generazione X che del punk siamo, si può dire, coetanei. Certo allora di creste, spille da balia, chitarre elettriche, slogan situazionisti, non sapevamo nulla. Si viveva per il biberon più che altro. Pure, il punk, è stato come noi figlio di un mondo che stava cambiando in fretta senza rendersene conto. C'erano ancora l'Unione Sovietica e la Democrazia Cristiana, il welfare state e il contratto a tempo indeterminato (quello vero non quello «indeterminato vedi asterisco a fondo pagina» di oggi). Erano gli anni dell'Italia settima potenza industriale del mondo, della televisione onnipervasiva, del terrorismo rosso e nero, delle vacanze al mare che duravano tutto agosto. Tutto così. Solido, immutabile, definitivo.
Quando invece non lo era. I punk l'avevano capito e avevano raccontato il futuro nelle loro canzoni. Il futuro del «No Future» e dello «shopping scheme» di Johnny Rotten e dei Sex Pistols o quello di Londra che brucia di noia con tutti «sitting 'round watching television» dipinta a tinte forti dai Clash.
Sì, sono passati quarant'anni. E noi, giovani degli anni 90' ci siamo ritrovati quelle canzoni addosso, non più a raccontarci il futuro, quanto piuttosto il presente. Del resto molti gruppi della nostra generazione hanno ripreso quel racconto (v.di CCCP e slogan quali «produci, consuma, crepa») e questo non ha fatto che scatenare in molti di noi la passione per il punk e per la musica corrosiva di quegli anni.
In tutto il mondo si celebrano i quarant'anni del punk. C'è una miriade di siti internet dove trovare tutti i calendari di eventi e manifestazioni volti a ricordare l'ultimo grande movimento di rottura culturale che la nostra civiltà abbia mai conosciuto.
Da coetaneo del punk e cittadino adottivo di Milano, voglio ricordarlo per come l'ho vissuto, specialmente quella notte del 4 dicembre 1999 quando all'allora Rolling Stone di Milano si esibì in concerto il grande Joe Strummer. Non ci andai da solo, quella sera, ma in compagnia del mio amico Jacopo anch'egli grandissimo fan dei Clash (più di Mick Jones che di Strummer però). Prima di scrivere questo pezzo ci siamo visti e abbiamo frugato insieme nell'armadio dei ricordi.
C'era gente al Rolling Stone quella sera. Ce n'era sì, ma neanche poi tanta se pensate che stava per suonare lo storico cantante e leader dei Clash, non so se mi spiego. Quella sera siamo andati lì per goderci qualcosa di più di un concerto. Con il fresco entusiasmo dei ragazzini che corrono a vedere il loro idolo, finalmente in carne e ossa, ci eravamo preparati fino dal giorno prima a forza di full immersion nei 33 giri dei Clash e di letture di interviste che Joe aveva rilasciato ai principali quotidiani. Ricordo una sua dichiarazione in cui disse pressapoco questo: «sei una leggenda del rock quando tutti sanno chi sei, ma nessuno vuole più suonare con te». Strummer andava in scena al Rolling Stone con la sua nuova band, i Mescaleros, ragazzi simpatici e volenterosi, ottime spalle per una figura tanto carismatica ed energica.
Il Rolling Stone ricordava perfettamente, quella volta, uno di quei «club» londinesi dove i punk si esibivano nei 70'. Joe è salito sul palco bello carico ed è stato da subito trascinante. Non dico le abbia fatte proprio tutte, le canzoni che avremmo voluto sentire, ma quasi. Tra le altre, Rock the Casbah che nessuno (nemmeno lo stesso Strummer che se ne sarebbe rammaricato in seguito) avrebbe potuto immaginare sarebbe stata usata come slogan da apporre sulle bombe gettate dagli americani su afghani e iracheni solo pochi anni dopo. Un fan scatenato, presumibilmente romano, appostato sotto il palco, ha urlato incessantemente a Strummer per almeno metà concerto: «Aaaaaaggggggiiiiiòòòòòòòò facceeeeeeeeee Tommiiiiiiganneeeeee», fin quando lo stesso Joe non l'ha fatto salire sul palco mostrandogli la scaletta del concerto e invitandolo cortesemente a non rompere più i maroni (chiedetevi se gli pseudo-rocker strapagati di oggi lo farebbero). Ricordo bene le parole del nostro eroe prima di intonare White Riot: «And now a song muy antigua» con noi tutti sotto a pogare. E ricordo, infine l'ultima canzone Bank Robber con tutti a cantarla stretti spalla contro spalla nel tentativo di essere allo stesso tempo qualcosa che che non c'era più e qualcos'altro di nuovo a cui non si riusciva a dare un nome.
E poi c'è stato il dopo concerto che realmente non dimenticheremo mai. Noi fuori, in corso XXII marzo, da bravi cinici giovanotti di fine millennio ad aspettarci l'uscita del nostro contornato da guardie del corpo di varia stazza e cattiveria, speranzosi di agguantare per miracolo un autografo o un sorriso. Joe che invece usciva da solo, tranquillo con un'aria, è proprio il caso di dirlo, da vero punk. Jacopo ricorda di averlo riconosciuto dal modo di camminare, un po' sbilenco e con le mani in tasca. Mister Strummer si è fermato coi fans a fare due chiacchiere, foto, autografi e a scambiare opinioni sul concerto. Jacopo ricorda anche di avergli ha detto qualcosa su Shane Mc Gowan, l'ex cantante dei pogues in quel momento ostaggio della droga e Joe ha commentato dicendo «Oh Shane such a good guy».
Voci narrano che la serata (non per noi purtroppo) sarebbe proseguita all'Atomic Bar con Joe in compagnia di alcuni ragazzi che avevano assistito al concerto, tra birre, risate e canzoni. Questo era il punk. Niente star sul palco e pubblico in platea. Tutti insieme, una sola grande famiglia. Oggi nel 2016, mi sento ancora di ringraziare Joe per quella sera, in cui ha preso a calci il nostro cinismo e ci ha insegnato che, nonostante tutto, le cose si possono ancora cambiare. Basterebbe solo recuperare quella merce un po' rara al giorno d'oggi che ha per nome sincerità.