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Jululu. Caporalato, la parte marcia dell’Italia spiegata da uno straniero

Il cortometraggio Jululu di Michele Cinque è stato premiato martedì 3 ottobre al Milano Film Festival. Al giovane autore romano è stato assegnato il premio Abba. A consegnarlo il padre di Abba, il ragazzo di 19 anni ucciso a sprangate in via Zuretti a Milano nel 2008 con il falso pretesto di aver rubato in un locale.

Hassane Guibre, padre del giovane, sceglie di rimanere in silenzio, ma la sua presenza basta per rendere intenso questo momento di riflessione sul razzismo in Italia.

 Jululu

Presentato alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia e premio per la miglior regia nell’ambito del Progetto MigrArti 2017, il cortometraggio ha il nome dell’anima protettrice africana, una guida sciamanica alla quale Badara Seck si appella per ritrovare le radici e i valori del suo popolo. Badara Seck, griot senegalese, un cantore moderno alla stregua di Omero, ci spiega il regista, si imbatte invece in un ghetto di lavoratori agricoli. Tra questi Yvan Sagnet, che ci racconta la verità circa il lavoro dei braccianti, schiavitù moderna.

Tre quintali ogni sessanta minuti, un quintale ogni venti, cinque chili al minuto, diciotto-venti quintali in dieci ore, per sei-sette cassoni da riempire. Ogni cassone tre euro e cinquanta, sette euro in due ore…

Inizia così Jululu, con la voce di Yvan Sagnet, giovane che dal Camerun arriva in Italia nel 2008 per studiare Ingegneria delle Telecomunicazioni al politecnico di Torino. Persa la borsa di studio, nell’estate del 2011 decide di lavorare nei campi pugliesi per sostenere le spese universitarie. Scopre un’Italia che non si aspettava, quella del caporalato.

“A questa realtà mi sono ribellato.”, spiega Yvan Sagnet, presente alla premiazione. “Non è stato facile perché i ghetti sono invisibili. A chilometri di distanza dai centri abitati, nessuno li vede. Eppure i ragazzi vengono adescati dai caporali nelle piazze pubbliche, davanti a sedi di rappresentanza governativa, davanti agli occhi dei poliziotti che sorvegliano i pulmini. In Italia è la normalità, così com'è normale che una bracciante donna venga pagata almeno il 30% in meno degli uomini.”

Sagnet si mise in testa della rivolta dei braccianti di Nardò e le sue testimonianze furono cruciali per la condanna del 12 luglio 2017 di dodici imprenditori e caporali stranieri. “Oggi almeno ogni settimana dei caporali vengono arrestati, ma solo nel 2016 si è dato nome a un fenomeno che esiste da decenni in Italia.” Nell’ottobre del 2016 passa infatti la prima legge contro quello che fu definito come reato di “riduzione in schiavitù”.

Ma quali sono le condizioni dei braccianti agricoli?

Vivono in accampamenti sporchi, visibili in Jululu, ammassati. L’acqua e il cibo devono acquistarli dal caporale, 1,50€ una bottiglia di acqua e 3€ un panino. È vietato portare cibo da fuori. Il posto nel ghetto costa 50€ al mese e per raggiungerlo devono pagare 5€ per lo spostamento a carico del caporale.

“Quando ho lavorato lì alla fine della giornata non mi è rimasto nulla di quello che avevo guadagnato” ci spiega Sagnet.
“La reale difficoltà”, aggiunge, “è stata quella di far disegnare una legge che non punisse soltanto i caporali. Una volta eliminato un caporale ne arriva subito un altro. La responsabilità maggiore è di chi sta dietro a questo meccanismo di sfruttamento, ovvero delle grandi filiali industriali. Tre prodotti su cinque che mettiamo sulla nostra tavola sono in odore di schiavitù. È l’effetto dell’ultraliberalismo”.
“I prodotti sul mercato costano sempre meno per questa ragione. È il sistema che dobbiamo cambiare” aggiunge Michele Cinque.

IUVENTA
Il regista sta inoltre lavorando da oltre un anno al lungometraggio che spera di presentare al festival di Berlino, IUVENTA, la storia dell’Ong berlinese Jugend Rettet,("Gioventù salva").

Era inizialmente un’associazione di dieci ragazzi che desideravano impegnarsi per far cambiare le leggi relative ai traffici in mare alla fine dell’operazione Mare Nostrum. Da quel piccolo progetto di attivismo sono riusciti a equipaggiare la nave che ha salvato molte vite.
Michele Cinque ha documentato il loro lavoro per un totale di 500 ore. “In quello specchio di mare quei ragazzi hanno lasciato un’utopia”, ci spiega alludendo alle accuse rivolte oggi all’Ong di avere collegamenti con le organizzazioni criminali che guidano i traffici. Michele Cinque li difende sostenendo “Soltanto nella missione alla quale ho partecipato io abbiamo salvato 2000 persone”.

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