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Come vestirsi bene: il dresscode dell'eleganza milanese

outfit rosso street styleMilano, capitale italiana della moda, della finanza e del design, centro nevralgico di business variegati, detta legge sulla “tenuta da lavoro”, la “tenuta da scuola”, la “tenuta da casa”, la “tenuta da tempo libero”. Del resto è inevitabile. Anche se non scontato.

"Il problema di Milano è che si tratta di una città un po' troppo chiusa e non particolarmente ospitale nei confronti del variegato mondo internazionale che è abituato ad andare in città che si chiamano New York, Parigi, Londra, che sono aperte 24 ore su 24 e molto di più", osserva il presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana Mario Boselli nel giorno in cui sono state inaugurate le passerelle milanesi dedicate alla donna del prossimo inverno,"abbiamo bisogno che anche Milano sia aperta:questo l'obiettivo che è necessario perseguire per la capitale del prêt-à-porter internazionale, che si prepara a ricevere Expo 2015, ma che deve vivere comunque sempre più di internazionalità.”

Certo che se internazionalizzarsi vuol dire abbandonare il proprio stile distintivo italiano per mescolarsi in una massa indistinta di abbigliamenti che non hanno né capo né coda, allora no grazie. L’apertura andrebbe piuttosto vissuta come accoglienza di influenze straniere che si portano dietro una storia fatta di usi, costumi, modus vivendi che ne hanno determinato l’impronta caratteriale, con cui convivere, senza escluderle dagli eventi che ne permettono la visibilità e promozione.

Detto ciò, mi piacerebbe analizzare i vari codici di abbigliamento determinati da ciascuna situazione di vita, che si ripropongono quali biglietto di accesso e che traducono in tessuti, tagli, colori e abbinamenti gli intricati schemi relazionali, gerarchici e di ruolo che ad essi soggiacciono, appurato che l’abbigliamento (attenzione, non le firme!) sia uno dei pilastri fondamentali su cui si reggono e attorno a cui si costruiscono i rapporti sociali.

outfit bianco street styleLungi da me addentrarmi nella intricata concezione odierna del corpo umano, di come TV e pubblicità ne facciano uso spogliandolo spesso e volentieri, azzardando abbinamenti a sproposito pur di attirare attenzione e audience.

Sicuramente, e giustamente, il dress code varia in base al contesto in cui ci si trova immersi, al ruolo che si ricopre e alle circostanze a cui si partecipa, ma non può esulare da alcuni principi cardine insiti in un codice che sottosta al concetto di società civilizzata. Una sorta di tacito accordo, tale per cui muoversi in un contesto sociale significa aver accettato di rispettare alcune regole fondamentali. Regole che vanno oltre le mode e le tendenze del momento, e che si appellano ad un sano e rispettoso viver comune. Oltrepassare i limiti del decoro, della decenza, del rispetto di sé e degli altri non va mai bene.

Diversi studi indicano che c’è uno stretto legame fra il modo di vestire e di pensare di una persona, il suo modo di comportarsi e la conseguente reazione degli altri nei suoi confronti. Un gioco di cui vanno rispettate le regole, volenti o nolenti. E’ sottinteso che bisogna sapere a che gioco si sta giocando. E dimostrare che si è attenti all'immagine della società che si può dare, facendo attenzione al look: è una prova di rispetto nei confronti degli altri.

Doveroso citare Roland Barthes e il suo “Sistema della Moda”, in cui l’autore espone interessanti osservazioni sui significati sociali dell'abbigliamento e del costume. Il vestito va inserito in una prospettiva istituzionale che ne comprende tutte le norme.

E arriviamo al dunque: l'indumento individuale si inserisce in un sistema formale e normativo, e analizzarne il dress code che vi soggiace non è altro che descriverlo al livello della società e in termini di istituzione. È proprio questo impianto normativo a trasformare l’abbigliamento “nell'abito che fa il monaco”.

Vestirsi non è semplicemente un mettersi addosso qualcosa: è veicolo di una immagine che riflette una serie di messaggi consci o inconsci che si trasmettono agli altri. Sono sufficienti 30 secondi di osservazione per farsi un’immagine di una persona. E’ una impressione che scaturisce immediatamente in un ‘sì, ok’ oppure ‘non ok’. Ovviamente il look non si limita solo ai vestiti o all'acconciatura ma include anche, i gesti, la postura, il linguaggio non verbale che si usa, quello che si dice e quello che si tace. Però è anche vero che l’abbigliamento contribuisce per circa l’80%.

quello che il look svela di ciascuno di noi

outfit street style

1. Il grado di autostima 

Quello che indossiamo mostra agli altri quanto ci rispettiamo, e da quanto colgono esternamente possono trarre altre conclusioni su di noi che vanno a toccare la nostra personalità e carattere

2. La sicurezza e la fiducia in se stessi 

Quello che indossiamo trasmette agli altri delle sensazioni, mirare alla perfezione assoluta rischia di tradursi in uno strafare, mentre non curare minimamente abbinamenti e compatibilità di forme può essere indice di trascuratezza

3. La propria capacità di valutazione

Saper scegliere il look adeguato viene percepito come un saper prendere la decisione giusta anche in altri campi. Sapere quando è il caso di vestirsi in modo conservativo o casual, oppure mixare i due stili è indice di buona gestione di sé.

4. L’attenzione ai dettagli

Ovvero quel 10% che non rientra nell'abbigliamento in senso stretto ma che contribuisce con questo a proporre una certa immagine di sé piuttosto che un’altra (la cura di mani e unghie, il taglio dei capelli, la quantità di trucco e accessori )

5. La creatività 

Indipendentemente dalla circostanza, quello che conta è esprimere la propria unicità con un dettaglio che ci contraddistingua.

Fatte queste premesse si può quasi tentare di tracciare il dress code che si è venuto tacitamente delineando per i vari ruoli ricoperti nella società, in particolare nelle sue sottocategorie, come le varie tipologie di lavoro, di tempo libero, di status giuridico, etc.

Coco Chanel sosteneva che “la moda ha a che fare con le idee, il modo in cui vivi e quello che ti accade”.

Chiara Collazuol

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