Filippo La Mantia. Il percorso di un grande uomo che dalle difficoltà ha saputo risalire egregiamente a testa alta
Conosco Filippo La Mantia sin dalla mia più tenera età. Non perché io sia siciliana o abbia particolari legami con quella terra, bensì ci sono colpi di fulmine difficili da camuffare o boicottare. La prima volta volta che ne ho sentito pronunciare il nome ahimè non era associato ad un bell’articolo di elogi nei confronti della sua persona; a causa di un malinteso, si ritrovò nel carcere dell’ Ucciardone, nella sua amata -Palemmo-. Un duro colpo per un ragazzo pieno di sogni, che aveva voglia di mordere la vita e godersi gli anni della sua giovinezza.
Filippo all’epoca era uno stimato fotoreporter, giovane, bello e dal background importante. Gli scatti, tanto per citarne alcuni, dell’omicidio del Generale Dalla Chiesa, erano proprio i suoi. Purtroppo però la vita a volte è ingiusta e colpisce sempre le brave persone. L’accusa delittuosa che gli era stata affibbiata fu quella di essere coinvolto nell’uccisione del vicequestore aggiunto Ninni Cassarà, stretto collaboratore di Giovanni Falcone. Tutto è partito da alcune indiscrezioni secondo le quali i proiettili destinati al vicequestore erano partiti proprio dall’appartamento dove Filippo risultava essere l’ultimo affittuario regolarmente registrato. Non si trattava della verità, in quanto aveva scelto di trasferirsi a Mondello, lasciando, seppur a malincuore, la bella e dannata Palermo, in un periodo davvero critico per la città. Dovette restare sei mesi in una cella piccola e angusta, con la speranza che prima o poi la verità fosse saltata fuori. Il 24 dicembre 1986 ecco arrivare l’ordine di scarcerazione firmato dallo stesso Falcone, il che significava nuova vita per il futuro oste.
Un Oste con una carriera da Chef stellato
L’amore per la cucina Filippo aveva iniziato ad apprenderlo all’età di 14 anni ma fu proprio quell’esperienza in carcere, dove nella sua mente rievocava gli odori e i sapori di casa che lo hanno spinto a non abbattersi, a lanciargli un segnale importante: una volta uscito da quell’incubo avrebbe fatto della sua passione un lavoro.
Filippo La Mantia è un siciliano DOC, pensa e vive alla giornata, ama cambiare, ed è il lanciarsi in nuove esperienze la carica per affrontare i giorni che scorrono, anche in questo periodo di pandemia. Di seconde vite, a tal proposito, ne ha avute parecchie: dall’apertura del suo primo ristorante “Zagara” con il quale si battezza Oste&Cuoco (odia essere chiamato Chef!), il trasferimento in Indonesia come consulente per il noto resort “Losari Cofee Plantation”, il ritorno a Roma caput mundi aprendo “La Trattoria” che ha sempre considerato essere il suo vero palcoscenico. D’altronde ai piedi del Pantheon lo scenario era a dir poco superlativo. Successivamente va al “La Safina” a Porto Cervo ma il legame con Roma era talmente forte che vi fa ritorno cucinando per rockstar e Capi di Stato, un vero e proprio trampolino di lancio.
Quell’uomo stimato, di successo, continuava, però, ad avere un grande sogno nel cassetto: aprire un ristorante tutto suo a Milano. Senza ombra di dubbio, riesce a coronarlo e, nel 2015 in Piazza Risorgimento nasce il suo bambino milanese “Filippo La Mantia - Oste & Cuoco”. Un luogo magico in tutti i sensi, in grado di far cadere ai suoi piedi illustri personaggi dello spettacolo (anche a livello internazionale), ma con un unico obiettivo: i clienti devono essere tutti trattati allo stesso modo e, cosa fondamentale per lui, entrare e sentirsi a casa. In una casa non ci sono orari e vi si può consumare la colazione, il brunch, il pranzo, la merenda e la cena, ed è ciò che ha voluto Filippo per la sua -casa milanese-. L’eleganza e la cura dei dettagli, ove le luci soffuse e l’atmosfera ricercata giocano tra gli ambienti e, dove, le fotografie d’autore appese sembrano danzare a ritmo di musica sono state progettate da Piero Lissoni, caro amico di Filippo, il quale ha dato origine ad uno spazio meraviglioso, che sprigiona il calore e l’accoglienza siciliana.
Questo grande sogno, purtroppo, a causa della pandemia ha dovuto subire uno stop e, con il cuore in mano La Mantia ha deciso di chiudere questo gioiellino, diventato insostenibile sotto il punto di vista dei costi e, trasferirsi nella cucina di Giancarlo Morelli, amico fraterno, all’interno del quale può continuare la sua attività di delivery e, nel mentre, ricercare una nuova location per ripartire ancora una volta.
Dopo questa intro, non breve ma necessaria per descrivere la grandezza e la forza d’animo di Filippo La Mantia, che oggi si definisce “Ex- Oste&Ex-Cuoco”, andiamo a scoprire qualcosa di più su di lui, dopo averci volentieri scambiato quattro chiacchiere.
D. Filippo, nella tua BIO di IG ti definisci Ex-Oste&Ex-Cuoco. Ammetto che quando l’ho letta per la prima volta ho provato un senso di sconforto, non sapevo se si trattasse di un addio o un arrivederci. Come mai quest’appellativo drastico, se vogliamo?
R. Ho sempre pensato che il cuoco debba avere una SUA cucina per fare il proprio lavoro. In questo momento, per la prima volta in 20 anni, non ho un ristorante e, di conseguenza neanche una cucina, quindi sono un Ex! Spero di ritornare presto “attivo”.
D. Qual’è stata la prima sensazione che hai avuto quando hai appreso che il primo DPCM (Febbraio scorso) emanato dal’ex Premier Conte avrebbe previsto la chiusura dei ristoranti?
R. L’ho vissuta, insieme a tutti i miei ragazzi e penso, come fanno molti altri, ad una cosa grave ma pur sempre passeggera. Mai avremmo potuto pensare di chiudere per una pandemia. Dunque ci siamo ritrovati tutti a casa, riscoprendo i valori veri della vita, la famiglia, figli e dirette Instagram. Per tutta la durata del lockdown ho propinato ricette con le relative foto; avevo deciso di stare vicino ai miei clienti attraverso il food. Ad aprile ho intrapreso una collaborazione con l’Ospedale Niguarda producendo 500 pasti al giorno e, sempre nello stesso mese ho riattivato il servizio delivery e di asporto dalle cucine del mio, ora, ex ristorante. Io stesso consegnavo nelle case, anche fuori Milano e, le persone mi hanno ringraziato ritornano numerosissimi quando abbiamo riaperto. Il potere del cibo, della famiglia, dell’amicizia premia sempre.
D. Successivamente, abbiamo visto che ti eri organizzato con il delivery, andando, a volte, tu stesso a consegnare il cibo ai clienti. Che sensazione provavi ogni volta, quando invece di vedere soddisfazione nei volti, dopo aver assaggiato le tue prelibatezze, ti imbattevi in ingombranti mascherine?
R. Come accennavo prima, le famiglie erano felici di vedermi arrivare nelle loro case, seppur munito di guanti e mascherina. Ci guardavamo negli occhi, sorridevamo con lo sguardo e provavamo a conoscerci in un’altra maniera.. del tutto nuova. Il cibo lasciava tracce indelebili nella memoria di ognuno di noi. Le difficoltà della vita sono sempre state superate intorno ad un tavolo imbandito e così è stato, nonostante tutto. Tutti ci siamo riscoperti vulnerabili e fragili in fondo.
D. Dopo la breve riapertura, ti saresti mai aspettato un nuovo lockdown e, successivamente la chiusura definitiva del tuo ristorante?
R. Durante il primo lockdown iniziavo a percepire che non saremmo stati più uguali a prima. Sarebbe stato impossibile riprendere le stesse abitudini di sempre. Da quando siamo nati la nostra routine consiste in abbracci, baci, uscite e frequentare luoghi affollati. Girovagare fa parte della nostra natura. È una cosa fisiologica. Vedendo come sono andate le cose non si può; colpa, forse, anche dell’atteggiamento sbagliato di tutti “noi”, specie in estate. Una critica va anche ad un governo che non ha saputo gestire, come tutti, le difficoltà ed i divieti. Nessuno è pronto per avere vietato qualcosa che pensiamo sia naturale. Era logico, quindi, non si potesse pensare più a grandi eventi, grandi buffet e tutte quelle attività che servivano ad una struttura importante come la mia di esistere. Ho dovuto essere razionale e lucido, prendere coscienza che quel posto fatto con immensi sacrifici doveva essere chiuso.
D. Tra ristoratore e cliente spesso si crea un rapporto di complicità, di amicizia oserei dire. Pensi che più avanti si potrà godere nuovamente di questo privilegio o i rapporti potrebbero divenire più freddi?
R. Ho sempre detto: Il ristorante lo realizza il cuoco ma alla fine appartiene al cliente. Senza quest’ultima figura noi non potremmo esistere, lavorativamente parlando. Da parte mia posso dire che fino all’ultimo giorno ho avuto il pellegrinaggio da parte di clienti del quartiere, oltre a migliaia di messaggi di solidarietà, sommati, comunque, a presone arrabbiate perché il loro luogo, la loro casa non c’era più.
D. Da ciò che mostri sui tuoi profili hai un rapporto bellissimo con la tua brigata. Quali insegnamenti ti hanno dato durante questi anni di collaborazione braccio a braccio?
R. Senza la mia brigata, lava piatti, sala e cucina, non avrei mai potuto fare nulla. Il successo l’avevamo raggiunto tutti insieme. Tra mille difficoltà, incomprensioni, sguardi truci, sorrisi, abbracci e tanto tanto sacrificio. Il gruppo è importantissimo. Ho la grande fortuna di avere un Generale (sorride) in cucina, Gennaro, che è sempre riuscito a portare avanti un lavoro a dir poco eccellente. Oggi alcuni sono rientrati nelle loro case, altri hanno intrapreso altre strade ed altri li ho sempre al mio fianco. Vedremo cosa accadrà più avanti….
D. La routine di uno chef si sa, comporta molti sacrifici; niente orari e poco tempo da dedicare alla famiglia, o meglio, non tanto quanto se ne vorrebbe avere. Prima anche tu eri schiavo di questo “sistema” sicuramente. Ora come scorrono le tue giornate? Sappiamo che sei un super papà di Carolina, Andrea (nato dalla relazione con la foodblogger Chiara Maci) e “papone” di Bianca. C’è qualcosa in particolare modo che ti manca dei mesi scorsi?
R. La vita di chi fa il nostro lavoro è composta dall’uscita di casa alle 9 del mattino ed un rientro alle 01 della mattina seguente. 7 giorni su 7. Non è un lavoro il nostro, bensì una vocazione, una dedizione per ciò che si fa. Una sorta di missione, se vogliamo. Un servizio a 360 ° riguardo il cliente, il luogo, la materia prima (fondamentale), l’atmosfera e tutto quello di cui si compone un ristorante. Ero arrabbiatissimo con il governo soprattutto per questo. Hanno unificato tutte le categorie come “movida”, senza considerare affatto tutto quello che noi ristoratori avevamo fatto per garantire sicurezza ai nostri cari clienti. Noi non abbiamo mai avuto un positivo al Covid.
Ora come ora mi manca il mio palcoscenico, le esibizioni, l’ansia da prestazione, la passione, l’adrenalina, il controlla maniacale ed esagerato dei particolari, della luci, della musica e, l’andare in scena ogni sera per vedere felici e soddisfatti i miei clienti. Le giornate scorrono lenti, cerco di organizzare delle cose per la ripartenza. Al momento abbiamo ripreso il delivery presso le cucine di un mio grande amico, Giancarlo Morelli. Bisogna starsi vicino ed aiutarsi a vicenda.
D. La pandemia ha modificato totalmente le nostre vite, portandoci a riflettere di più su ciò che conta veramente e sui nostri obiettivi. Dal punto di vista della cucina come si ripercuotono questi cambiamenti?
R. I ristoranti del post Covid dovranno essere concepiti in una nuova maniera. La cucina dovrà essere motivo di gioia non appena si potrà uscire di nuovo e frequentare gente. Senza alcun dubbio saranno i primi posti in cui le persone andranno e chi fa questo lavoro dovrà essere pronto sia psicologicamente che mentalmente.
D. Guardando al futuro, che consiglio ti senti di dare ai ragazzi che vogliono intraprendere la tua strada?
R. Bella domanda. Chi decide di fare questo lavoro deve mettere in conto che il sacrificio è alla base di tutto, oltre che l’altruismo. Ogni tanto mi capita di leggere che i ragazzi si sentono sfruttati dai loro datori di lavoro a livello di orari. Per quanto mi riguarda se non impari vivendo già a lungo nel luogo dove svolgi la tua professione non arriverai da nessuno parte. La mia generazione, anni ’60, ha vissuto il lavoro a tempo pieno. Mai, io stesso, avrei pensato che qualcosa mi stesse sfruttando. Anzi, se mi permettevano di sostare in un luogo di lavoro oltre l’orario ero un privilegiato. Guardavo, assorbivo ed imparavo tecniche e trucchi. Faceva parte della mia vita, perché nessuno ti regala nulla!
D. Ultime due domande. Poi non disturbo più. A bruciapelo: hai mai pensato di mollare tutto?
R. L’ho pensato tutte quelle volte in cui credevo di non potercela fare. Alla fine, però, sono sempre qui. Combattivo ed ho una visione sempre più chiara e agguerrita su quello che voglio.
D. Da siciliano doc non deve esser stato facile, specie all’inizio, accettare l’idea di non poter avere più quella condivisione, tipica del sud, nel tuo locale. La tavola del brunch imbandita di ogni ben di dio, al momento, sembra un lontano ricordo. Per il tuo progetto futuro a che tipologia di ristorazione hai pensato? Ti va di anticiparmi qualcosa?
R. Qui ti rispondo da siciliano, poche, anzi pochissime ma essenziali parole.
Il mio motto è: Ogni giorno è il primo giorno. Vedremo. L’importante è la salute, prima di qualunque altra cosa.
Grazie Filippo! D’altronde come dice Bertrand Russell: “L’entusiasmo è per la vita quello che la fame è per il cibo”.
Ho tenuto particolarmente a realizzare quest’intervista perché sapevo che sarebbero uscite fuori entrambe le facce della medaglia: quella del ristoratore e quella dell’essere umano. La sua storia come accennavo all’inizio mi ha affascinato da sempre, sentirlo parlare, anche mentre cucina, mi fa rimbalzare alla mente i momenti impagabili che purtroppo nessuno mi restituirà più, trascorsi in cucina con la mia amata nonna, Anita.
Filippo La Mantia, avrebbe conquistato anche lei e come due vecchi amici si sarebbero fermati a parlare e, sicuramente, discutere, su qualche preparazione ed ingredienti segreti! Lui ha la sua stessa dolcezza quando fa le cose e grazie anche alla semplicità si è accaparrato un posto nel cuore di molti.
Agnese Pasquinelli