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La Quinta Mafia: intervista all’autore dottor Marco Omizzolo

foto omizzolo marco

Marco Omizzolo, sociologo e ricercatore dell’Università La Sapienza di Roma e di Eurispes, vive sotto vigilanza e nel 2019 gli è stato conferito da Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’onorificenza di Cavaliere al merito della Repubblica per il suo coraggio ed impegno in difesa della legalità.

È uscito da pochi giorni il suo libro, la nuova edizione del “La Quinta Mafia”, edito da Radici Future e per capire bene di che cosa si tratta abbiamo voluto intervistare proprio il ricercatore impegnato da tanto tempo nella lotta alla criminalità.

Dottor Omizzolo, Cosa significa oggi la parola mafia?  

Mafia significa molte cose. Di sicuro significa delega, indifferenza, subordinazione e sconfitta. Essa è infatti il risultato non solo di eventi storici, fatti economici, politici e culturali ma anche di approcci alla vita e alle relazioni che fanno della delega, dell'indifferenza alle cose che riguardano il proprio mondo e della propria subordinazione la sua espressione forse più vera. Ne “La Quinta Mafia” riprendo una interessante affermazione di Nicaso del 2016, secondo me tra i massimi esperti dell'argomento, il quale afferma che la mafia è tutto ciò che lo Stato italiano ha voluto che fosse, ossia un’organizzazione criminale lungamente sottovalutata, in grado di stringere rapporti stabili con una parte della classe dirigente, grazie alla capacità di regolamentare relazioni sociali e dirimere conflitti più o meno leciti. È così che, come affermava Bobbio (2011) e come ho ripreso nel mio libro, il potere invisibile è diventato quello più visibile, o almeno visibile a chi voleva vedere o aveva gli strumenti di indagine e riflessione migliori per comprendere gli aspetti specifici e sistemici di questo fenomeno criminale. Secondo il sociologo Rocco Sciarrone, “non bisogna dimenticare che le mafie – e questo è uno degli elementi di maggiore rischio e pericolosità – dispongono di un’enorme liquidità che possono offrire a imprese e operatori economici in difficoltà (…) il problema non è quindi soltanto la mafia in sé, quanto il fatto che i confini tra il lecito e l’illecito sono opachi e porosi, e possono diventarlo ancora di più in una situazione di crisi e di emergenza quale quella che stiamo attraversando”. Per questa ragione è necessario conoscere e indagare le mafie riconoscendo loro un cervello sociale e politico in connessione diretta con gli interessi che governano un territorio e con le aspirazioni di alcuni esponenti politici che da quegli interessi traggono consensi e potere. La costruzione delle alleanze di oggi tra poteri mafiosi e alcune imprese, professionisti, amministratori pubblici e un consenso sociale derivante da una inaccettabile acquiescenza di parte della cittadinanza, deriva non solo dagli interessi economici e dalla relativa potenza delle mafie ma da una serie di rapporti, strategie coincidenti e bisogni mutualmente soddisfatti che affondano le loro radici in parte della storia del territorio pontino.

Perché ha deciso di scrivere questo libro e cosa significa questo titolo?

È una riedizione aggiornata di un libro pubblicato nel 2016, sempre per Radici Future, giovane casa editrice pugliese del mio amico Leonardo Palmisano, in cui cercavo di modellizzare idealtipicamente le strategie politiche di insediamento e radicamento che varie mafie hanno sviluppato per stabilirsi in provincia di Latina, ad appena cento chilometri da Roma. Ho preso in considerazione il periodo 1982-1994 per contraddire la tesi di troppi presunti esperti secondo la quale le mafie in provincia di Latina sarebbero presenti solo da pochi anni e si dedicherebbero alla sola attività di riciclaggio. La cronaca giudiziaria di quegli anni, le attività investigative, le maggiori operazioni delle Forze dell'ordine e della Procura, le inchieste di molti giornalisti, cito in particolare Emilio Drudi, ma anche le battaglie dei giovani di allora, di alcune categorie sindacali e datoriali e di alcuni esponenti istituzionali come validi questori e prefetti, indicano invece chiaramente una presenza pluridecennale delle mafie e comportamenti criminali che comprendono l'intera gamma del loro agire, come omicidi, racket, intimidazioni, regolamenti di conti sulle strade pontine, condizionamenti diretto della politica locale e dell'imprenditoria. In questa occasione mi preme ricordare l'omicidio ad esempio di Don Cesare Boschin, prete di borgo Montello, a pochi chilometri da Latina, reo di aver denunciato il traffico di droga nel suo borgo e di traffici illeciti di rifiuti che interessavano la relativa discarica. Erano traffici organizzati in modo illegale con l'ausilio del clan dei Casalesi e in particolare degli Schiavone. Insomma ho voluto scrivere questo testo per raccontare la storia criminale, sia pure sotto forma di cronaca e secondo un approccio quasi etnografico della presenza mafiosa e dei loro sporchi interessi nel Pontino, che poi è anche quello in cui sono nato e cresciuto, per educare i giovani soprattutto ad una consapevolezza nuova, informata e puntuale, perché non cadano nel tranello di coloro che negano le mafie o ne minimizzano la portata e la pericolosità, magari accusando giornalisti, ricercatori e donne e uomini impegnati su questo fronte di infangare il buon nome della provincia di Latina e dei suoi concittadini.

Il libro si apre con una prefazione del procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho e una postfazione di Gian Maria Fara, presidente di Eurispes. Quanto è importante il ruolo della magistratura nella lotta alla criminalità organizzata e quanto è importante indagare questo fenomeno sul piano sociologico ed economico come fa l'Eurispes?

Ne approfitto innanzitutto per ringraziare sia il Procuratore De Raho sia il presidente Fara. I loro contributi danno valore internazionale allo sforzo di chi vuole indagare per sviluppare proposte, anche di natura politica, più articolate rispetto a quelle ora vigenti e una coscienza sociale più diffusa e precisa. Parliamo di due personalità di altissimo livello. Non a caso il Procuratore De Raho ha sostenuto e ospitato la presentazione di vari lavori di ricerca di Eurispes riguardanti le mafie, a dimostrazione del fondamentale ruolo che l'alleanza tra indagine giudiziaria e quella sociologia svolge nel contrastare questo fenomeno criminale sul piano giudiziario ma anche culturale, sociale e politico. Il ruolo della magistratura è fondamentale per evidenti ragioni. I mafiosi sono omicidi seriali, mandanti di omicidi, ladri di democrazia e libertà. Spetta alla magistratura e in particolare ad alcuni suoi specifici organismi indagare e reprimere il crimine organizzato. Come anche il lavoro dell'Eurispes che ha il compito di indagare e così di pulire gli occhiali da vista coi quali il Paese guarda e comprende questo fenomeno. Avere a disposizione numeri, fatti e analisi, è fondamentale per rispondere adeguatamente agli interessi mafiosi, che vanno osservati e studiati per la loro reale portata e non certo sovra o sottodimensionati. È sufficiente ricordare che l'Eurispes pubblica annualmente il dossier Agro mafie che è punto di riferimento internazionale ormai sul tema e che approfondisce con competenza ciò che in molti continuano a far finta di non vedere. A questo riguardo, proprio per contrastare agro mafie e caporalato, dal 1 al 3 ottobre come Tempi Moderni nell'ambito del corso di formazione di Casa Comune, a Fondi, Comune del Sud Pontino dove risiede il Mercato ortofrutticolo tra i più grandi d'Europa, abbiamo lanciato il progetto “Libertà” per aprire un centro di accoglienza e lavoro per tutti coloro che in Italia, senza alcuna distinzione di nazionalità o legale, hanno denunciato padroni e padrini, caporali e truffatori, così da costruire insieme un percorso alternativo a quello a cui troppo spesso sono destinati dopo la denuncia, ossia la povertà, l'emarginazione e uno stato di cronica disoccupazione. È un progetto importante che è stato lanciato alla presenza di Don Luigi Ciotti, presidente di Libera, divenendo così un impegno etico imprescindibile.

Lei si è stato e continua ad essere in prima linea per la lotta al caporalato. Secondo lei c’è qualche legame tra questo fenomeno e la mafia?

Esiste un rapporto intimo tra la terra e le mafie. Da sempre le mafie amano la cosalità che deriva dalla terra. Possedere la terra è per le mafie la premessa per scalare il potere e altri settori economici. Il caporalato come attività di intermediazione però è attività mafiogena che può essere gestita da criminali e non solo mafiosi. Il reclutamento illecito di manodopera va specificato può interessare le mafie ma non vi è sempre questa coincidenza. Io sono però per il superamento del concetto di caporalato. Vorrei parlare di padronato, ossia della responsabilità piena dell'imprenditore agricolo criminale che seleziona e investe un suo fedele dipendente come caporale per reclutare manodopera da impiegare nella sua attività alle condizioni economiche, sociali e di sicurezza a lui più conveniente. È tempo di guardare con maggiore attenzione a questo fenomeno e ti aggredirlo alle sua fondamenta.

Schierarsi da parte dei più deboli non è facile nel nostro Paese, lei vive da tempo sotto vigilanza e nonostante tante avversità non ha mai deciso di mollare nel portare avanti la sua battaglia verso la legalità. Come si sente ad affrontare tutto questo?

Non lo affronto da solo. Ci sono centinaia di persone che affrontano questa sfida con me e migliaia di lavoratori e lavoratrici che lo fanno anche assai mai meglio di me, sapendo in modo puntuale come funziona il sistema criminale di sfruttamento e dunque anche come sabotarlo. Io lavoro come docente della Sapienza e sociologo Eurispes ma collaboro anche con Amnesty International e sta per essere presentato un dossier al quale ho lungamente lavorato dalla Ong WeWorld sulle condizioni di lavoro delle braccianti straniere in provincia di Latina. Alcune di queste hanno peraltro denunciato attraverso il progetto “Dignità Joban Singh” e l'associazione Progetto Diritti i loro sfruttatori e con loro siamo pronti a costituirci parte civile. Ci sono poi i ragazzi di Libera guidati da Don Francesco Fiorillo, gli ultimi due dossier Ecomafia di Legambiente (2020 e 2021) trattano nello specifico questo tema, ci sono Forze dell'Ordine e Procura di Latina che stanno facendo un lavoro straordinario nel territorio, come anche la Cgil del mio amico Giovanni Gioia, che ha più volte denunciato il grave sfruttamento del lavoro e anche lui rischiato molto. Manca ancora una coscienza e volontà politica territoriale altrettanto avanzata. Troppe amministrazioni comunali della provincia di Latina mi invitano a convegni e seminari, i loro sindaci applaudono commossi, prendono impegni informali e poi spariscono, oppure accampano scuse quando chiediamo loro di passare dalle parole ai fatti, dalla commozioni alle delibere. Si tratta di amministrazioni pavide le cui pochezze saranno presto raccontate pubblicamente.

Il ricavato delle vendite del libro , se acquistato mediante tempi moderni, sarà interamente devoluto al progetto “DIGNITA’ PER  JOBAN SINGH”. Chi era Joban Singh e cosa tratta questo progetto?

Joban Singh era un bracciante indiano di appena 25 anni residente nel residence “Bella Farnia Mare”, nel Comune di Sabaudia, in provincia di Latina, che il 6 giugno del 2020 è stato trovato senza vita all’interno del suo appartamento. Joban decise di impiccarsi dopo essere entrato in Italia mediante un trafficante di esseri umani indiano, essere stato gravemente sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e aver subito il rifiuto da parte del padrone alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità mediante art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) del governo. Dedicare questo progetto alla sua memoria, per non dimenticare ciò che significa vivere come uno schiavo in un paese libero, è un impegno che viene sottoscritto da Tempi Moderni ma che può camminare solo sulle gambe di tanti, o meglio di una comunità di persone responsabili e ribelle contro i padroni e i padrini di oggi. In questa Italia ci sono, secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (2020), tra 400 e 450 mila lavoratori e lavoratrici che solo in agricoltura risultano esposti allo sfruttamento e al caporalato. Di queste ultime, più di 180 mila sono impiegate in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Secondo il sesto Rapporto Agromafia dell’Eurispes, il business delle agromafie, che comprendono le forme di grave sfruttamento, vale 24,5 miliardi di euro l’anno, con un balzo, nel corso del 2018, del 12,4%. Un fiume di denaro che è espressione di un’ideologia della disuguaglianza penetrata nei processi culturali delle società occidentali e troppo spesso relazione fondamentale del mondo del lavoro, in particolare del lavoro di fatica. Ancora nel 2019, ad esempio, l’Eurispes aveva esplicitamente dichiarato che lo sfruttamento è una fattispecie criminale le cui principali vittime sono i migranti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina. Lo sfruttamento, infatti, risultava più diffuso nei comparti più esposti alle irregolarità, al sommerso e all’abuso, dove chi fornisce prestazioni lavorative è in condizione di maggiore vulnerabilità. Insomma, uomini e donne a cui viene violata la dignità ogni giorno, costretti ad eseguire gli ordini del padrone, a sottostare ai suoi interessi e logiche di dominio. Quando questo potere si esercita nei confronti delle donne, lo sfruttamento assume caratteri devastanti. Ci sono infatti anche casi di violenza sessuale, di subordinazione delle lavoratrici immigrate alle logiche di dominio del boss, del padrone, del capo di turno. In provincia di Latina e precisamente a Sabaudia, appena poco prima di Natale, un’operazione denominata “Schiavo” e condotta dalla guardia di finanza, ha permesso di liberare dallo sfruttamento 290 lavoratori, soprattutto di origine indiana, che da anni venivano retribuiti con salari mensili inferiori anche del 60% rispetto a quelli previsti dal contratto provinciale, senza il riconoscimento degli straordinari, con l’obbligo di lavorare anche la domenica, impiegati senza le necessarie misure di sicurezza. Dunque, cosa fare? Avere il coraggio di capire, organizzarsi e agire collettivamente. Non si hanno alternative. La povertà, lo sfruttamento, la schiavitù, la violenza, non si abrogano per decreto. Non basta una legge. Serve un’azione collettiva espressione di una volontà radicale di contrasto di questo fenomeno mediante innanzitutto l’accoglienza e l’ascolto delle sue vittime, la costruzione di una relazione orizzontale con loro, dialettica, professionale e anche in questo coraggiosa, perché si deve prevedere l’azione di denuncia dei padroni insieme a quella della tutela. Ed è questa la sintesi perfetta del progetto Dignità–Joban Singh che ha organizzato e avviato una serie di sportelli di accoglienza, ascolto, sostegno e anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Si tratta di sportelli che hanno il compito di accogliere e di fornire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini gravemente sfruttati, di qualunque nazionalità, vittime di tratta e caporalato, di violenze, anche sessuali, obbligati al silenzio o alla subordinazione. Insomma, un progetto realizzato grazie all’ausilio di avvocati di grande esperienza e con mediatori culturali affidabili e professionali, fondato sulla pedagogia degli oppressi di Freire, che però ha bisogno del sostegno della maggioranza di questo Paese, donne e uomini che non vogliono vivere sotto il ricatto delle mafie, dei violenti, degli sfruttatori, dei nuovi schiavisti, dei razzisti, in favore di un’Italia che merita un presente migliore. Per partecipare è sufficiente andare su produzioni dal basso e scrivere Dignità Joban Singh. Ogni contributo può aiutarci a salvare persone dallo sfruttamento.

Intraprendere la strada della criminalità organizzata non è difficile. Soprattutto i giovani attratti dal denaro possono cadere in dei tunnel senza fine, come quello della criminalità. Cosa si sente di dire  loro?      

Che stare dalla parte delle mafie significa vivere sotto padrone, come peraltro si intitola un mio libro edito da Feltrinelli sulla nostra lotta contro lo sfruttamento dei braccianti in provincia di Latina. Chi si dedica alla criminalità ha vita breve, oppure la trascorre in carcere, lontano da tutto e da tutti. Le mafie sono destinate ad essere sconfitte, forse come diceva Bufalino da un “esercito di maestri” ma di sicuro non sono eterne, come diceva anche Falcone. È come scegliere di tifare per la squadra che si vende tutte le sue partite del campionato, puntando sulla sua vittoria dello scudetto tutto il proprio patrimonio. Nella mia città ho visto boss mafiosi girare con auto da centinaia di migliaia di euro, essere guardati con ammirazione da troppi concittadini e sentirsi i padroni di tutto. Poi viene il giorno in cui invece vengono arrestati e devono dar conto dei loro criminali alla legge, i loro beni vengono sequestrati e confiscati e li ritrovi dopo anni, soli, poveri e sfigati. Penso all'inchiesta “Teng 'e cart” o “Ponza nostra” o molte altre. Dobbiamo essere padroni del nostro destinato, liberi da qualunque forma di mafia, sfruttamento, emarginazione e razzismo. Solo così sapremo essere uomini e donne liberi in un mondo libero.

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