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L’orario di lavoro dopo il Covid: le 8 ore sono un modello che funziona ancora?

Nell’ultimo anno la pandemia ha portato grandi rivoluzioni nel mondo del lavoro con il ricorso massiccio allo smart working e al telelavoro, ma non solo; sono cambiate le abitudini lavorative, come gli allineamenti settimanali tra manager e collaboratori con l’utilizzo delle piattaforme zoom e teams. I lavoratori che hanno potuto utilizzare la modalità di lavoro “agile”,  sono riusciti a conciliare  le esigenze lavorative con gli impegni familiari che si sono aggravati con la Dad.

In questo scenario, questi elementi hanno radicalmente cambiato la concezione dell’orario del lavoro, che in certi frangenti non era più legata alle classiche 8  ore nella modalità 9-18.

Molti lavoratori si sono responsabilizzati sugli obiettivi da raggiungere nella giornata, con dei pro e i contro (l’iperconnessione).

Oggi analizziamo l’evoluzione dell’orario di lavoro con Massimo Mamoli  professore a contratto di Economia aziendale presso il  Dipartimento di Scienze Politiche Economiche Sociali Università di Milano, autore di testi in materia economica.

L’orario di lavoro pari a 8 ore è un modello che funziona ancora nella nostra economia?

Il dibattito sul numero di ore lavorate è sorto in Italia a partire dalla fine dell’Ottocento, quando - per sospingere lo sviluppo economico - la seconda fase della Rivoluzione Industriale si era basata sullo sfruttamento dei lavoratori, costretti ad orari impossibili (anche 16 interminabili ore!). Gli effetti che questa prassi ha determinato, in modo scientifico si definiscono “patologie da monotonia industriale”, un tema indagato successivamente da Mayo nel corso dei suoi esperimenti svolti presso la Western Electric di Hawthorne (un sobborgo di Chicago).

In Italia per un primo ritocco al ribasso del monte ore si deve arrivare alla Legge Carcano del 1902 che ha introdotto la riduzione dell’orario di lavoro a 12 ore, oltre a limitazioni a tutela delle donne e dei bambini di età inferiore ai 12 anni; invece si deve attendere lo Statuto dei Lavoratori del 1970 per vedere una giornata lavorativa di 8 ore e di 40 settimanali.

Da allora, pur avendo assistito alla crescita del peso della tecnologia (la robotica e l’ICT in particolare), il carico giornaliero di ore non è stato più modificato.

Questo appare sorprendente, specie se consideriamo che già circa 500 anni fa, Tommaso Moro nella sua opera “Utopia”, ha dichiarato che l’Uomo deve dedicare al Lavoro un quarto della giornata, quindi sei ore, lasciando il resto del tempo a: i) famiglia e tempo libero; ii) cultura ed aggiornamento personale; iii) questioni fisiologiche (per intenderci i bisogni primari richiamati dalla piramide di Maslow: mangiare, dormire e riposarsi).

In altri termini ritengo sia opportuno procedere ad una riforma globale del Lavoro che possa far coincidere le diverse esigenze dei soggetti economici coinvolti: Azionisti/proprietari, Lavoratori, Territorio, Stato. Vincere insieme per riavviare l’economia italiana.

Negli altri paesi europei, si lavora di meno ma c’è una maggiore produttività, come in Germania. Da cosa dipende?

In effetti è vero, la media di ore lavorate negli stati EU è minore di quella che si riscontra in Italia (secondo i dati OCSE 1632 ore rispetto alle 1719 ore lavorate in Italia), e addirittura in Germania questo dato si riduce a 1360 ore all’anno. Tra i motivi che incidono sulla maggior produttività della Germania si deve considerare la maggior efficienza della Pubblica Amministrazione ed inoltre la particolare modalità di gestione delle aziende tedesche che, a differenza di quelle italiane (nonostante l’art. 46 della nostra Costituzione così recita: “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende”), sono caratterizzate dalla presenza nel board di rappresentanti dei lavoratori con un significativo potere gestionale, ma soprattutto i contratti di lavoro - in virtù della cogestione - prevedono una partecipazione ai risultati delle aziende.

Tuttavia se la variabile produttività in passato ha giocato a sfavore dell’Italia, secondo un recente Rapporto Istat del 2018, i nostri dati sono in netta ripresa, infatti nel quadriennio 2015-2018 la produttività dell’industria manifatturiera italiana è cresciuta ad un tasso maggiore (9,3% in termini reali) rispetto quello registrato negli altri tre maggiori paesi UE: Germania (7,1), Francia (7,5) e Spagna (3,4), grazie soprattutto agli incentivi fiscali erogati per finanziare l’innovazione.

Sono state avanzate proposte per ridurre la giornata lavorativa con l’introduzione di un tetto massimo di ore settimanali compreso di straordinari, eventualmente con l’ipotesi di penalizzare fiscalmente gli straordinari? Cosa ne pensa?

Innanzitutto ritengo utile al dibattito delineare l’attuale quadro macroeconomico generale nel quale rileviamo l’effetto combinato dell’impatto tecnologia 4.0 e del perdurare della crisi economica, peraltro acuita dalla pandemia Covid19. Questi due fattori hanno prodotto una forte flessione dell’Occupazione e del Prodotto Nazionale Lordo (PNL, che rappresenta il valore monetario di tutti i beni e servizi finali prodotti da fattori posseduti da cittadini italiani in un determinato periodo di tempo), di conseguenza non si deve dimenticare che per ritornare ai valori di PNL, ossia ai valori  precedenti la crisi dei “titoli tossici-Lehman Brothers” del 2008, saranno necessari ancora altri 3-5 anni.

A mio parere la soluzione a questa congiuntura particolarmente sfavorevole (che nel contempo mi consente di rispondere alla sua domanda) può essere trovata agendo in due fasi: nella prima, applicando sia politiche keynesiane che prevedono l’intervento dello Stato, attraverso un Piano strutturato di assunzioni rivolto ai settori che la spending review ha ridimensionato: Sanità, Istruzione e Cultura; sia attraverso una “campagna” di assunzioni mirata a ricoprire posti a sostegno del Territorio (ad es. investimenti per il ripristino dei danni da dissesto idrogeologico oppure per fronteggiare le calamità naturali; secondo l’ISPRA il 90% dei Comuni italiani è esposto a questo rischio) e di conseguenza funzionali al rilancio del Turismo, altro settore strategico che con il suo 12% del PNL rappresenta un’occasione di rilancio per allargare la base lavorativa. La concomitanza di queste tre iniziative potrebbe contribuire ad aumentare il PNL consentendo una redistribuzione delle risorse.

La seconda fase - da concertare con la prima - imperniata sulla riduzione di orario da attuare seguendo lo schema: “Lavorare meno ore, lavorare più Persone, soprattutto i giovani!”.

Le risorse finanziarie potrebbero essere trovate nei fondi del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) che l’attuale Governo dovrà provvedere ad utilizzare a partire dal 2° semestre.

Per quanto riguarda gli straordinari ritengo che non debbano essere penalizzati fiscalmente, specie se derivanti da situazioni di “emergenza” lavorativa (anzi credo che il lavoro, in particolare quello di qualità debba essere gratificato in modo adeguato anche a livello monetario!); allo stesso tempo anche gli altri lavori che richiedono maggiori qualifiche professionali, e dove le “risorse umane” non sono facilmente sostituibili, non debbano essere disincentivati, ma regolati si.

Mentre per i lavori generici è opportuno ridurre il ricorso al lavoro straordinario, salvo si tratti di lavori stagionali e sempre dietro un’apposita regolamentazione in modo da non limitare la base produttiva.

Come si fa ad abbassare l’orario di lavoro nei settori dove non esistono sistemi di rilevazione presenze o controlli capillari?

Questo tema innanzitutto si collega all’obbligo sancito dalla Sentenza n. C55/18-2019 della Corte di Giustizia UE, che chiede alle aziende di dotarsi di moderni software per la rilevazione delle presenze dei lavoratori. In ogni caso, come accennavo in precedenza, la questione deve essere risolta alla radice con un patto tra azienda e lavoratori, basato innanzitutto sulla fiducia reciproca e organizzando l’attività per obiettivi. Nello specifico l’azienda dovrà fissare obiettivi ai lavoratori che decidono di lavorare in smart working e con orario ridotto; dal punto di vista pratico l’azienda dovrà mettere a disposizione le attrezzature idonee per affrontare questa difficile transizione e migliorare la produttività dei lavoratori.

Quale sarà lo scenario dopo il Covid19? Lo smart working non ha provocato un aumento delle ore di lavoro?

In effetti la maggior “libertà” e la maggior “comodità” (no costi di trasferimento, né per il pranzo) che lo smartworking ha garantito a milioni di lavoratori (secondo l’Osservatorio Smart Working gli italiani che nel 2020 hanno lavorato in questa modalità sono stati 6,58 milioni, pari ad un terzo circa del totale dei lavoratori. Si pensi che nel 2019 i lavoratori in smart working sono stati solo circa 600.000!) si è tradotta in un maggior numero di ore lavorate, infatti nel lavoratore è accresciuta una sorta di maggiore responsabilizzazione ed attaccamento all’azienda. Forse un’inconscia ricompensa per aver beneficiato di una modalità di lavoro giudicata più agevole oppure la consapevolezza di essere comunque “tracciati” e cercare di dare il meglio. 

Questa affermazione è stata verificata da una Ricerca condotta da OnePoll per conto di Citrix Systems, che nelle 5000 interviste effettuate ha rilevato che circa il 70% ha dichiarato che le ore lavorate nel periodo covid19 sono risultate superiori al passato. Tuttavia rimangono alcuni aspetti negativi: l’isolamento dai colleghi, che riduce la relazione “face to face”, ma soprattutto la difficoltà a separare il lavoro dalla vita personale.

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