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Ambrogio e le parole d'un tempo

casa-di-ringhieraUn breve articolo, leggero e sbarazzino, che mi porta a immaginare un piccolo racconto usando alcuni termini in dialetto milanese, relegati ormai nella soffitta dei ricordi. Il racconto sembrerà un po’ strano, infatti, ho lasciato libertà completa alla fantasia che, com’è risaputo, non segue proprio alla lettera i canoni ortodossi.

Ambrogio, classe 1929, se ne stava seduto sulla vecchia sedia impagliata, con la sua immancabile pipa fumante, lì sul ringher, ossia il ballatoio, a osservare il via vai quotidiano, un andirivieni a badalucco, a bizzeffe, di gente di ogni tipo, dal moletta, l’arrotino, che faceva la sua comparsa una volta il mese, al magnan, che ripara e ristagna le pentole.

Il mese scorso si era portato dietro un tirazza, che è quel personaggio che si esibiva in occasione di matrimoni o feste; un tipo davvero simpatico. Guarda chi si vede, bofonchiò Ambrogio, don Peppino che tiene sotto il braccio, un lettorin, un leggio. Sicuramente lo starà portando in chiesa per la funzione della sera. D’un tratto l’attenzione fu attirata dal piccolo Giovanni che slisa via, si allontana di soppiatto per sfuggire alla nonna.

La settimana scorsa aveva fatto la stessa cosa, solo che all’improvviso una slusciada, acquazzone, lo aveva bagnato de capp a pè, così al rientro si è sorbito il rimbrotto della nonna che, senza lasciarsi commuovere, lo mise in castigo. Quella volta il castigo consisteva nell’aiutare il signor Luigi a trasportare, giù in cantina, il robbioeul; sono vinacce compresse in mattonelle che poi, essiccate al sole, erano usate come combustibile.

Terminata la fatica, stava per varcare la porta di casa quando è bloccato dall’acuta voce della nonna che gli intima di cavarsi le scarpe e infilare i sibrett, cioè le pantofole o ciabatte che dir si voglia. Dal fondo del cortile compare Brigida, sicuramente sarà stata a depositare qualcosa nel suo piccolo ripostiglio, strapieno di cattanaj, di cianfrusaglie. Dalla strada giunge un richiamo strombazzato da un megafono che dice: questa sera nella piazza ci sarà un grande spettacolo col girometta, partecipate numerosi, divertimento assicurato. Per girometta s’intendono i pagliacci, i burattini.

Proprio questa sera che in parrocchia hanno organizzato di far “ballare” la ballottera, che altro non è che il sacchetto che contiene i novanta numeri della tombola. Numeri estratti da quel gimacch, spilungone, del Bruno, detto scorbatt, corvo, perché sempre vestito di scuro.

Terminata la tombolata c’è l’immancabile rinfresco per tutti, allora vedi apparire gli sgandòlen, che sono quelli che mangiano avidamente che paiono morti di fame, in compagnia dei leccard, i ghiottoni che trangugiano di tutto senza tanti riguardi. Alla serata partecipano molti grimett, i vecchietti e qualche balabiott, buontempone, che non ha mai nulla da fare. Alle sedici, il cortile si anima di un vociare caotico, sono alcune cianciapett, ragazzine vispe che si stanno accordando a quale gioco giocare, mentre la più piccola, la pirla e la bicocca, gira come una trottola, in attesa delle decisioni delle più grandicelle.

Una boggia de calzetta, pallina di legno per il rammendo delle calze, raggiunge il piede di Ambrogio, e subito appare la sciura Amelia che, senza tanto cinquantalla su, ossia senza pensarci troppo, si china e la raccoglie, e subito slisa via, se ne va alla chetichella. Un pinella, ragazzino, esce di corsa dal portone seguendo il proprio pallone, mentre l’Ambroeus è colpito dalla gibigianna, dal riverbero del sole.

Nella còrt della casa di ringhiera dove abita l’Ambrogio, c’è di tutto, anche avi, usellitt, parpaj e galavron, api, uccellini, farfalle e calabroni, che beatamente cinguettano e svolazzano di qua e di là, mentre su una panca, nel ballatoio opposto, il Gianni el schissàa on visorin, si schiaccia un pisolino, incurante dell’aria remondinna, frizzante. La signora Carolina cerca, sulla camicetta la smogetta, la macchiolina, ma siccome l’è un po’ tobis, corta di vista, fa fatica a metterla a fuoco e, non riuscendoci, incomincia a trepillà, ossia a divenire impaziente.

Sulla porta dell’osteria, che sta di là dalla via, Pietro, col canaruzz avert ai quatter vent, a gola spiegata insomma, sta richiamando dalla cantina il proprio garzone che, a quanto pare, se la prendeva un po’ troppo comoda. All’improvviso un sgrisor, un brivido, scende lungo la s’cenna, la schiena dell’Ambrogio che decide, prima che il brivido sia tra el petascioeu e l’osset de la borella, tra il sedere e la rotula del ginocchio, di rientrare in casa e mangiarsi on aranz, un’arancia, poi magari, andrà all’osteria di Pietro a farsi una partita a scòa.

Qui mi fermo, anche perché ormai la partita a scòa sta per iniziare e voglio assistere alla sfida.

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