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Sonetti su medici e pazienti del poeta Gioacchino Belli in dialetto romanesco

Dalla mia biblioteca mi è venuto alla mano un piccolo libretto in cui si tratta di medici, pazienti e ospedali nella Roma al tempo del poeta dialettale romano Giuseppe Gioacchino Belli, siamo negli anni 1833, e che lui mette sarcasticamente un poco alla berlina.

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Nel testo sono riportati i meriti dei medici, infatti, si dice: il medico è colui che esercita l’arte del guarire, l’arte sanitaria che impara a conservare la nostra sanità. Se dunque questa arte è così importante per la sopravvivenza dei singoli e della società, occorrerà che lo studio per divenire sapiente medico sia indefesso, di continua lettura, di saggia e costante osservazione. Perciò i medici devono possedere molta scienza per conoscere la malattia e i rimedi opportuni, e inoltre avere molta esperienza e prudenza, molta premura e tanta carità verso i più poveri. Vi era poi anche un paragrafo dedicato ai compensi per i medici, i quali devono contentarsi di una onesta rimunerazione, pertanto nessuno deve donare o elargire alcunché al medico. Segue un elenco su cui sono riportate le materie obbligatorie per il corso di medicina, che riporto per conoscenza.

Primo anno: Anatomia, Fisiologia, Chimica.

Secondo anno: Botanica, Igiene, Terapeutica generale e materia medica, Patologia generale e semeiotica.

Terzo anno: Igiene, Terapeutica generale a materia medica, Medicina teorico pratica, medicina politico legale.

Quarto anno: Medicina teorico pratica, Medicina politico legale, Farmacia pratica.

Invece per il corso di chirurgia le materie erano le seguenti:

Primo anno: Chirurgia, anatomia, fisiologia.

Secondo anno: Chirurgia teorica, Patologia medica e semeiotica, Igiene, Terapeutica generale e materia medica, medicina politico legale.

Terzo anno: Chirurgia teorica, Igiene, Medicina politico legale, Ostetricia.

Il corso degli studi pare severo e ben organizzato, tuttavia e purtroppo, vi erano a Roma anche una grande quantità di medici abusivi, di guaritori, di mammane, di ciarlatani e di stregoni. Ricordo che erano chiamate mammane quelle donne che aiutavano, clandestinamente e con mezzi rudimentali, le donne che volevano abortire.

Il poeta Gioacchino Belli si diletta a scrivere versi su queste situazioni della Roma del tempo. Ne riporto due che ho travato simpatiche.

La prima si intitola “Er Dottore somaro” , dove vi è una diversità di vedute tra il medico e il paziente in merito al termine “sano”, infatti, il paziente lo intende come tutto intero, mentre il medico voleva alludere al cibo che necessitava essere genuino, ossia sano.

Er Dottore somaro

Corpa sua. E pperché llui nun ze spiega?

Pecche rraggione l’antra settimana

rispose ar mi’ discorzo in lingu indiana

cuanno me venne a vvisità in bottega?

Dico: diteme un po’, ssor dottor Brega

po’ ffà mmale er cenà, cco la terzana?

Disce: abbasta sii robba tutta sana,

tu ppòi puro scenà: cchi tte lo nega?

Me maggnai dunque sano un pagnottone

casareccio, un zalame, ‘na gallina,

‘na casciotta, un cocommero e un melone.

Lui, azzo, aveva da parlà itajjano,

e rrisponneme a mmé cquela matina:

maggna robba insalubbra, e vvacce piano.

(Per terzana si intende la malaria).

 

La seconda poesia è una contestazione contro chi vuole impedire l’uso del vino al malato. Il titolo è:

L’ammalorcicato

(il malaticcio)

Ma ccome ha da stà bbene, sciorinato,

cuanno, per cristo, è bestemmio dar vino?

Oggnicuarvorta che sun va appoggiato

Casca si ll’urta un’ala d’un moschino.

Ha la grandole gonfie, è accaparrato,

nun tiè immanco ppiù un pelo in ner cudino,

campa de mela cotte e ppangrattato,

e sta ppiù ssecco che nnun è un cerino.

Avess’io la patacca de dottore,

lo metterebbe ar zugo de la bbotte,

pe ffallo aringrassà ccome un ziggnore.

Vorrebbe imbriacallo ggiorno e nnotte,

ché dd’incaconature nun ze more:

e jje direbbe poi: “vatte a fa fotte”.

 

È anche questo un modo, con la poesia in vernacolo, di richiamare l’attenzione su situazioni della vita quotidiana ma mettendoci un po’ di ironia e sfottimento.

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