Le Cinque giornate di Milano
LE CINQUE GIORNATE DI MILANO (18-22 MARZO 1848): MOTIVI, RAGIONI E SVOLGIMENTO DEL FENOMENO
Le Cinque giornate di Milano sono uno di quegli avvenimenti che hanno profondamente inciso nella coscienza e nella mentalità popolari.
Il fenomeno è talmente complesso da determinare e da assumere fino ad oggi, una sovrapposizione di idee, interessi e ragionamenti che ne hanno, in molti casi snaturato il significato ed i motivi, creando confusione e distorsioni dei fatti anche fra gli storici.
La genesi va ricercata nel ruolo assunto da Milano dopo la caduta del Regno italico nel 1814, del quale Milano era la capitale, e la conseguente riunificazione all’Impero absburgico.
Milano capitale (la cerimonia di incoronazione di Napoleone a re d’Italia si era svolta nel 1805 con pompa e fasto nel Duomo di Milano) aveva visto un incremento notevole dei commerci, l’avviarsi di industrie che, oltre a beneficiare l’aristocrazia locale aveva visto il moltiplicarsi della classe borghese nobilitata e ricompensata da Napoleone con cariche onorifiche.
La città era diventata il centro di una società elegante aperta agli influssi d’oltralpe e nella quale confluivano artisti e letterati. Eugenio de Beauharnais, il viceré figlio dell’imperatrice Giuseppina moglie di Napoleone, aveva trasformato l’austero Palazzo Reale in una residenza sfarzosa i cui saloni (sul soffitto del salone delle cariatidi, distrutto dalle bombe nell’agosto 1943, campeggiava la Gloria di Napoleone opera dell’Appiani) erano aperti a continui ricevimenti e balli. Rimaneva distaccato il popolo oppresso dalle continue requisizioni, dalla coscrizione obbligatoria e dalle soppressioni delle isituzioni religiose (la via Montenapoleone prende il nome dal luogo dove i francesi avevano ammassato il frutto, il “monte”, di ruberie e requisizioni operate nei conventi e nelle parrocchie della provincia milanese).
Con l’arrivo degli austriaci, accolti come liberatori dal popolo, la vita cambiò radicalmente. La centralizzazione esasperata del governo austriaco non poteva ammettere che Milano offuscasse, con le sue industrie e l’intraprendenza della sua borghesia, Vienna la capitale dell’Impero. L’Imperatore Francesco I impose un “codice” della nobiltà dove le famiglie antiche da almeno due secoli potevano esservi ascritte dietro pagamento di una congrua tassa (Alessandro Manzoni si rifiutò di pagare la tassa e di conseguenza per la classe dirigente egli fu considerato un semplice borghese); gli esclusi perdevano automaticamente tutti i diritti acquisiti sotto il regime napoleonico. La Corte era solo a Vienna e la selettiva aristocrazia viennese non vedeva di buon’occhio quella lombarda. Le grandi famiglie come i Visconti Venosta, gli Arconati, gli Arese, i Trotti che avevano fondato la propria ricchezza sulla proprietà terriera e sulle produzioni coloniche come quella del baco da seta, all’avanguardia in Europa, furono ulteriormente danneggiate dalle forti limitazioni imposte dal governo austriaco alla libera circolazione delle derrate e dalla moltiplicazione delle barriere doganali. La borghesia perse tutti i titoli di benemerenza o nobiliari acquisiti per i servizi resi al governo napoleonico e venne allontanata dal governo e dalla pubblica amministrazione alla cui guida furono nominati funzionari austriaci. Anche il popolo cominciò a nutrire sentimenti di sfiducia verso gli austriaci quando seppe che sarebbe stata mantenuta la coscrizione militare obbligatoria, ciò che avrebbe comportato l’allontanamento per diversi anni dei giovani dal lavoro nelle campagne.
Le istituzioni religiose ed il clero invece vivevano una vera rinascenza sotto il polso fermo e sicuro dell’arcivescovo Carlo Gaetano di Gaysruck. Il “Tedescün”, come simpaticamente veniva chiamato dai milanesi, benché appartenente all’alta aristocrazia austriaca, aveva subito preso misure atte ad aumentare la scarsa cultura del clero, con l’apporto soprattutto di nuove materie scientifiche e con testi di autori stranieri, alla costruzione di nuovi seminari più funzionali e moderni, alla fondazione di nuove congregazioni impegnate nell’educazione dei ceti più umili e ciò in totale indipendenza dalla Corte viennese.
Gli anni 30’ e 40’ segnarono una continua ascesa del benessere dovuto soprattutto al moltiplicarsi delle industrie di ogni tipo (si calcola che, in questi anni, fossero attivi in Lombardia oltre 4000 telai), alle forti tasse sull’importazione atte ad incentivare i prodotti lombardi, all’obbligatorietà scolastica, all’avanguardia non solo in Italia ma anche in Europa. Il fervore economico non faceva però che aggravare l’insofferenza dei ceti dominanti verso il centralismo di Vienna. Milano che, durante il regno napoleonico, era stata una delle capitali culturali ed artistiche d’Europa, ora soffriva la dipendenza dalla capitale dell’Impero e sopportava sempre meno l’odiosa censura che, come una falce, mieteva vittime in ogni campo della vita civile. Nel 1846 un vero “urlo di gioia” accompagnò anche in Lombardia, l’elezione al soglio pontificio di Pio IX che, con le sue prime misure in senso liberale, aveva acceso nuove speranze nelle popolazioni italiane oppresse da vari regimi dittatoriali (in quell’occasione Metternich ebbe a dire che l’elezione di un “papa liberale” era la peggior cosa che potesse accadere). Nel 1847 la situazione si stava evolvendo verso un’opposizione sempre più dura alle misure imposte dalla censura austriaca. L’8 settembre alla notizia dell’elezione del nuovo arcivescovo, il cardinale bergamasco Bartolomeo Carlo Romilli, la popolazione si lasciò andare a scene di giubilo talmente accese da essere considerate provocatorie dalla polizia militare austriaca (in effetti la gente vedeva nel Romilli “l’italiano” contrapponendolo all’”austriaco” Gaysruck) che caricò con la cavalleria i dimostranti in piazza Duomo facendo morti e feriti; una volta insediato, il 14 settembre, il presule si affrettò a celebrare una solenne messa per i defunti ed i feriti milanesi ed in effetti l’appoggio della curia ai moti del 48’ fu uno dei punti salienti per la loro riuscita.
All’inizio del 1848 gli avvenimenti a Milano presero una piega sempre più turbolenta; l’arciduca Ferdinando Massimiliano, nominato viceré del Lombardo Veneto, era stato richiamato improvvisamente a Vienna a causa delle sue idee considerate troppo liberali dalla Corte; il Feldmaresciallo Radetzky cominciò il suo incarico di nuovo comandante militare e civile con una serie di arresti preventivi e con la minaccia paventata del disarmo della popolazione; il 3 gennaio lo sciopero del fumo organizzato dalla popolazione per contrastare il monopolio del tabacco in mano austriaca provocò scontri che causarono la morte di una quarantina di persone.
Ma ad accendere la miccia fu l’ondata rivoluzionaria che cominciata il 5 gennaio a Messina, si propagò ben presto per l’intera penisola; il 10 febbraio Vienna era insorta costringendo alla fuga l’intera Corte, mentre la popolazione aveva preso d’assalto il palazzo del Metternich che si era salvato a stento; il 4 marzo il re Carlo Alberto di Sardegna aveva concesso lo Statuto così come aveva fatto il granduca Ferdinando II di Toscana; il 17 marzo era insorta anche Venezia. All’alba del 18 marzo 1848 il Radetzky ricevette la notizia che la popolazione aveva cominciato ad innalzare le prime barricate ed aveva attaccato il palazzo reale; la rivoluzione era cominciata. Mentre le barricate andavano moltiplicandosi, molti membri dell’aristocrazia e della borghesia cominciarono a trasformare i propri palazzi in ferventi centri della rivolta e ad accogliere nei propri saloni i “gloriosi” feriti; il seminario Maggiore divenne, con la connivenza dell’arcivescovo, uno dei centri della rivolta, con il motto “croce e libertà” i sacerdoti salirono anch’essi sulle barricate. Lo stesso giorno, mentre sulla guglia della Madonnina del Duomo veniva innalzato il tricolore, il conte Carlo d’Adda ed il conte Enrico Martini erano partiti a spron battuto per Torino per perorare presso il re Carlo Alberto il suo intervento in favore della rivolta milanese; Il 19 marzo il Radetzky fu costretto a rinchiudersi con le sue truppe nel Castello Sforzesco di Milano; il conte Gabrio Casati si poneva, nel frattempo, a capo del neonato Governo Provvisorio. Il 21 marzo la rivolta si era propagata anche nelle campagne ed in questo frangente si segnalò il giovane sacerdote ed insegnante del Seminario don Pietro Stoppani, futuro geologo ed organizzatore del museo di storia naturale, che con particolari palloni aerostatici di sua invenzione, tenne la corrispondenza tra i rivoluzionari milanesi e quelli della provincia. Il 22 il Radetzky, vista l’esiguità delle forze in campo ed avendo ricevuto allarmanti notizie da Vienna, decise la capitolazione ritirandosi con le sue truppe nel Quadrilatero. La rivoluzione era finita ed il popolo milanese aveva per la prima volta trionfato.
A Cavour la situazione sfuggì di mano quando, oltre al passaggio sotto il dominio francese della Savoia, culla della dinastia, promise, a nome del Re, la mano della quindicenne principessa Maria Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele, per il trentasettenne principe Gerolamo Napoleone cugino dell’Imperatore, notoriamente ateo e donnaiolo. Di tutte le clausole del trattato, quest’ultima fu la più difficile da digerire: da una parte essa si scontrava con il desiderio di Napoleone III di imparentarsi con quella che era considerata una delle più antiche famiglie reali d’Europa (per gli Absburgo, i Romanov, i Savoia o i Borboni, l’Imperatore francese rappresentava un parvenu, l’ultimo arrivato, e quindi non aveva diritto ad essere chiamato “caro Cugino” come invece accadeva alle famiglie reali sunnominate, tutte più o meno imparentate tra di loro); dall’altra con la volontà di Vittorio Emanuele a tenere fuori dalle questioni politiche la propria famiglia, oltretutto non avrebbe mai acconsentito a sacrificare la propria figlia “per i begli occhi di Cavour”. Ma il desiderio del Re non poté nulla contro la ferrea volontà di Cavour, nonostante la furibonda lite scoppiata in seno alla famiglia reale all’annuncio delle nozze; Maria Clotilde accettò di sposare il principe francese, com’era naturale in un’epoca in cui le principesse si sposavano per la ragion di stato e l’amore non c’entrava nulla; quella che Bertoldi chiamerà opportunamente “una figlia per un’alleanza” convolerà a nozze il 30 gennaio 1859 e saprà, alla Corte francese, essere all’altezza del suo compito e servire il suo paese e la sua famiglia in ogni momento.
Le manovre di accerchiamento e di isolamento dell’Austria si stavano sempre più restringendo. Il 1° gennaio 1859, durante il ricevimento al Corpo diplomatico, Napoleone III si rammaricò con l’ambasciatore austriaco Hübner di come i rapporti con l’Austria non “fossero più buoni come una volta”: era il primo atto della manovra studiata per indurre l’Austria ad entrare in guerra. Che i sentimenti francesi stessero diventando sempre più antiaustriaci lo rivela l’ambasciatore Hübner nei suoi dispacci, nei quali egli avvertiva il proprio governo di come nei circoli della nobiltà e degli ufficiali si parlasse di una guerra contro l’Austria. Anche l’Inghilterra entrò presto in gioco. Infatti Sir James Hudson, membro del governo di Sua Maestà Britannica, amico di Cavour, informò segretamente il ministro piemontese che, qualora il governo inglese si fosse dichiarato contrario ad una guerra all’Austria, egli non doveva tenerne conto, ma l’Inghilterra avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco accettando il fatto compiuto. A questo punto Cavour, superando la sua avversione per il personaggio, avvisò Giuseppe Garibaldi di tenersi pronto a fomentare “dimostrazioni spontanee” in vari punti della penisola, tanto per gettare fango negli occhi del nemico, e di cominciare l’arruolamento di volontari (i Cacciatori delle Alpi) che avrebbero affiancato l’esercito regolare una volta entrati in guerra. Il 10 gennaio 1859 poi Vittorio Emanuele II inaugurò a Palazzo Madama, a Torino, la seconda sessione della sesta legislatura del Parlamento; nel testo letto con enfasi, il Re, espresse la celebre frase: “non siamo insensibili al grido di dolore che da tanti parti d’Italia si leva verso di noi”: erano i prodromi della guerra che di lì a quattro mesi, nelle intenzioni di Cavour, doveva scoppiare. Purtroppo quando tutto sembrava ormai deciso fu Napoleone III ad indietreggiare, spaventato dalle conseguenze della guerra: avversata dalla Corte (l’Imperatrice Eugenia, 1826-1920, non fu mai troppo tenera con gli italiani, colpevoli, a suo dire, di voler strappare Roma al papa, anche se Cavour, genio malefico, cercò di ovviare, spedendo a Parigi il “bel” Costantino Nigra, allora suo segretario, per cercare di “addolcire” la rigida sovrana, ma con scarso successo), dai circoli militari e dal Parlamento. Cavour allora tentò il tutto e per tutto: aveva già ordinato la mobilitazione e già si parlava di una Conferenza di Pace promossa dall’Inghilterra per appianare il dissidio (ma Cavour aveva sempre in mente il consiglio del ministro inglese) quando giunse l’ordine da parte dell’Austria di smobilitare le armate che già stavano allineandosi lungo il Ticino. Fu proprio “l’insolenza e la presunzione” dell’imperatore austriaco a decidere il Casus belli tanto sospirato dal Cavour.
Il 10 aprile 1859, Francesco Giuseppe convoca la famiglia imperiale e a loro fa sapere di aver ordinato al Re di Sardegna la smobilitazione delle sue armate, avvertendo in pari tempo i ministri di Francia, Prussia, Gran Bretagna. Il 16 questi ultimi si recano da Cavour consigliandolo di accettare i piani di disarmo; il 19 l’ambasciatore francese conte De la Tour d’Auvergne, in piena notte si reca dal Ministro piemontese con un dispaccio nel quale lo si avvisa che la Francia ha accettato la Proposta fatta dalla Gran Bretagna inerente il disarmo delle truppe piemontesi; sembra tutto perduto ed il Cavour medita perfino il suicidio. Ma in poche ore tutto cambia; Il Bertoldi, nella sua opera, espone così i fatti: quello stesso giorno, il 19, il cancelliere austriaco conte Carlo Ferdinando von Buol, su ordine imperiale, invia a Cavour l’ultimatum nel quale si intimava al governo piemontese la smobilitazione pena la dichiarazione di guerra: è il fulmine a ciel sereno atteso da tanto tempo.
Come in un valzer, del contenuto dell’ultimatum, Cavour, viene informato dall’incaricato francese conte Aymé d’Aquin alle 15,30 del 21, il quale a sua volta ne era stato informato dall’ambasciatore russo a Torino Stackelberg, che aveva ricevuto l’informazione dal collega di Vienna Balabin. Come se non bastasse da Cavour si reca anche l’ambasciatore inglese, suo buon amico, Lord West, il quale ha ricevuto dal suo ministro degli esteri, Lord Malmesbury, l’ordine di avvisare il governo piemontese della spedizione dell’ultimatum e concludendo con un Are you ready? (Siete Pronti?) all’indirizzo del patriota fuoriuscito Giuseppe Massari, uomo di fiducia di Cavour. E’ lo stesso Massari che nel pomeriggio del 23 aprile, sabato santo, si reca alla stazione di Torino, su incarico di Cavour, e poi alla Camera a Palazzo Madama, dove è stata approvata a stragrande maggioranza l’entrata in guerra, per avvisare il ministro dell’arrivo dei due incaricati austriaci: il barone Ernesto Leopoldo Kellerberg e il conte Ceschi di Santa Croce latori dell’ultimatum.
Essi si recano subito nell’ufficio di Cavour e lo informano, consegnandogli il dispaccio imperiale, che se entro tre giorni il Piemonte non avesse smobilitato l’Austria avrebbe dichiarato lo stato di guerra. Cavour prende i tre giorni di tempo concordando con Napoleone III la data dell’entrata ufficiale dei due eserciti in guerra. L’annuncio si ebbe il 26 aprile 1859 quando Vittorio Emanuele II, respingendo sdegnosamente l’ultimatum emana il proclama alle truppe in cui tra l’altro dice di essere entrato in guerra anche per aver “ascoltato le grida di dolore d’Italia oppressa”, poiché “la libertà qui regna con l’ordine, perché non la forza, ma la concordia e l’affetto fra popolo e Sovrano qui reggono lo stato”. Era così iniziata la 2° guerra d’Indipendenza.
Federico Bragalini
Vedi anche la Storia di Milano