Sulle cellule dendritiche ci va la panna?
Intervista ad Aida Paniccia, ricercatrice al San Raffaele e pasticciera
Al ritorno dal lavoro, in una caldissima serata milanese, Aida Paniccia mi accoglie nella casa che condivide da due anni con Nadia e Lia, le sue coinquiline. Una pioggia di stelle in cartoncino dipinto scende dal soppalco Ikea nella sua camera da letto. Quando si dice il cielo in una stanza.
Sulla scrivania, che lei chiama “l’angolo dei giochi di Aida”, cartoncini colorati, colla, pennelli. Al muro un enorme manifesto dell’Aida di Verdi, mentre tre grandi ceste strabordano dei suoi attrezzi del mestiere: stampi, tagliabiscotti, sac à poches.
Sì, perché Aida è una pasticciera, come certifica l’attestato che mi mostra orgogliosamente: realizza in casa i dolci che amici e conoscenti le commissionano e accarezza l’idea di diventare chef a domicilio.
Ma è anche una ricercatrice al San Raffaele dove si occupa di immunoterapia dei tumori.
“Ti dispiace se intanto che chiacchieriamo faccio una torta?”
Mentre la intervisto nella sua cucina, Aida -barese, classe 1984- inizia a pesare gli ingredienti.
Mi basta dare una sbirciata nella sua vita, che mi racconta non perdendo mai il bellissimo sorriso, per adorare l’entusiasmo che mette nelle cose.
D: Sei una ricercatrice: come è nata la tua passione per la scienza?
R: Ho sempre avuto quello che definisco “il richiamo per il bancone”, fosse di un laboratorio o di una pasticceria. I miei genitori hanno entrambi scelto facoltà scientifiche, quindi credo di aver respirato la scienza fin da piccola. Dopo la laurea in biotecnologie, ho optato per la ricerca perché ho sempre preferito la pratica alla teoria pura. Così, dopo aver inviato il mio curriculum al San Raffaele e aver partecipato a un concorso, ora sto completando lì il mio dottorato di ricerca.
D: Abiti a Milano da quattro anni, immagino che il tuo rapporto con la città sia stato ottimo da subito, quindi.
R: Sì, Milano mi si addice molto, è una città piena di iniziative che mi fa sentire viva! Magari non esco tutte le sere, anche perché il mio stipendio da ricercatrice non lo permetterebbe, ma mi piace trovarmi immersa in questo mare di possibilità. All’inizio ero un po’ spaventata perché molti mi parlavano di Milano come di una città grigia e chiusa, dove si lavora soltanto. Il classico stereotipo, insomma. Invece, ho trovato una città molto accogliente. Non penso che a Bari avrei avuto gli stessi stimoli: il solo fatto di aver incontrato persone con storie ed esperienze tanto diverse dalle mie mi ha fatto venire in mente nuove idee e progetti.
D: Ho visto sul tuo blog una torta stranissima a forma di cellula dendritica. Mi spieghi cos’è?
R: Io mi occupo di immunoterapia: il fine ultimo del mio lavoro è attivare il sistema immunitario dei pazienti contro i tumori. In prospettiva è molto affascinante: si tratta, per intenderci, di quella che viene definita “la risposta che viene da dentro” alla malattia. In particolare io studio le cellule dendritiche (la cui scoperta è valsa nel 2011 il Nobel per la medicina a Ralph Steinman) che riconoscono gli agenti estranei all’organismo e li segnalano al sistema immunitario e per questo motivo sono considerate una sorta di cellule-sentinella.
La domanda base a cui tento di rispondere è: perché il sistema immunitario reagisce contro il virus dell’influenza e non contro il cancro? Riuscire a capire come funzionano le cellule dendritiche e perché non si attivano contro le cellule tumorali può aprire nuovi orizzonti nella cura di questa malattia.
D: Cosa non sappiamo del lavoro quotidiano di un ricercatore?
R: E’ un lavoro molto stimolante e, a differenza di un lavoro di ufficio, c’è molto spazio per la creatività. Però ci vuole anche parecchia pazienza: i risultati, già di per sé a lungo termine, spesso possono essere difficili da riprodurre, perché noi ricercatori dobbiamo confrontarci con la loro grande variabilità. A volte non sono quelli che ci aspettiamo e bisogna riformulare tutta l’ipotesi. Ci vogliono anni perché un progetto possa considerarsi avviato.
D: Al contrario, quando fai una torta il risultato si vede subito! Cosa stai facendo con ben 350 grammi di burro?
R: Della pasta frolla per una crostata! Consiglio della massaia: fatene sempre un po’ di più, si può tranquillamente congelare!
Questa torta è per un mio collega appassionato di bici: quando gli ho raccontato che ho la bici ferma da un po’ a causa di una gomma a terra, ha insistito per venirmi a fare da meccanico a domicilio… Volevo ringraziarlo e a volte, per me, dirlo con una torta vale più di tante parole!
D: Com’è adesso la situazione al San Raffaele?
R: Di solito rispondo a questa domanda parafrasando Woody Allen: se volessimo vederla male il San Raffaele stava per fallire, l’Italia sta per fallire e neanche io mi sento tanto bene…!
Al di là della battuta: la verità è ci sono stati attimi di incertezza e un momento di passaggio difficoltoso. Ora la situazione si sta stabilizzando, ciò non toglie che in generale, nel campo della ricerca, quando si firma un contratto annuale sembra di aver ottenuto un indeterminato e che io e i miei colleghi abbiamo visto mettere in discussione anche questo.
D: Come hai vissuto questi mesi di difficoltà?
R: Sono diventata ottimista, quasi per voglia di contraddire. Non mi rassegno a essere considerata un’appartenente alla cosiddetta “generación perdida” dei giovani che, a crisi passata, avranno perso la possibilità di costruire il loro futuro.
Ho cercato di vederla da un altro punto di vista e ho trovato illuminante il libro Cosa tiene accese le stelle che Mario Calabresi ha scritto in risposta alle migliaia di email ricevute da parte di persone sfiduciate per la crisi. Il direttore de La Stampa sostiene che, in realtà, ciò che ci manca è la prospettiva: i giovani del secondo dopoguerra vivevano una situazione molto più disperata, però sapevano di poter stare meglio. Calabresi pensa che abbiamo dato sempre per scontata una progressione del benessere in Italia, poi è subentrata in noi la consapevolezza che economicamente non saremmo stati meglio dei nostri genitori e ci siamo quasi commiserati.
Io sono d’accordo con lui e credo che un po’ ci piangiamo addosso, agiamo col retro pensiero che le cose ci debbano essere in parte regalate e che esistano solo i percorsi stabiliti che hanno battuto i nostri genitori. Manchiamo di originalità e di capacità di vedere il futuro. Sembra retorica, ma io ci credo.
D: Mi sembra una buona ricetta! Dimostrami che la segui…
R: Uno dei miei sogni sarebbe fare, accanto alla ricerca, divulgazione. Ho capito di avere una certa propensione per la comunicazione scientifica e mesi fa ho contattato gli organizzatori del Festival della Scienza che si terrà a Genova dal 25 Ottobre al 4 novembre prossimi, proponendo loro il mio progetto: La dolce Scienza. Volevo unire le mie due passioni e realizzare un piccolo sogno: spiegare la biologia con le torte.
Mentre scrivevo mi dicevo: “Penseranno che sia un’idea delirante!”e invece… Come una volta mi ha detto una mia cara amica , di questi tempi la conoscenza deve essere uno choc emotivo: siamo circondati da milioni di input, non si riesce più a filtrare le informazioni, staccandosi dal rumore di fondo. Ѐ sempre più difficile ottenere e mantenere l’attenzione dell’interlocutore: magari mentre si tenta di parlare con una persona quella sta chattando su WhatsApp…
Incredibilmente, la mia idea è stata approvata. Certo si tratta di una piccola vittoria, non guadagnerò nulla, ma per me è stata una soddisfazione enorme. Senza nessuna “segnalazione”, tanto di moda nel nostro Paese, sono riuscita a realizzare un mio progetto, per quanto mi sembrasse folle!
D: E come si fa a spiegare la biologia con le torte?
R: Credo che l’idea vincente sia usare delle similitudini. Ti faccio un esempio: se io ti dico mitocondrio, non ti dico niente. Ma se ti spiego che è quella parte della cellula che serve a dare energia e ti suggerisco di immaginarla come un gheriglio di noce perché è risaputo che le noci sono caloriche e perché, guarda un po’, anche nella forma a creste sono molto simili, afferrerai il concetto molto meglio. Poi, magari, te lo faccio assaggiare e così il mitocondrio avrà per te anche un sapore o un odore… e continuare così il gioco. Ci si può sbizzarrire!
D: Come sei diventata pasticciera?
R: Ho sempre avuto il pallino della cucina, ero la piccola aiutante di mio padre che è sempre stato un ottimo cuoco. Avevo otto anni, quasi non sapevo leggere, ma quella Vigilia di Natale raccontavo a chiunque incontrassi che Babbo Natale mi avrebbe regalato il libro di ricette di Nonna Papera. I miei genitori mi avevano comprato tutt’altro e mio padre ha passato tutto il pomeriggio del 24 Dicembre a setacciare le librerie della città per trovarlo.
A Milano, in un periodo della mia vita un po’ di passaggio, mi è capitato fra le mani il volantino di un corso organizzato dalla cooperativa sociale Paideia, convenzionata con la Regione Lombardia. Così è esplosa questa passione: ho seguito le lezioni di pasticceria per sei mesi ogni sabato, fino a sostenere gli esami e conseguire il diploma di pasticciera.
Mentre al lavoro sono immersa in un mondo di gente che ha fatto le mie stesse scelte, a lezione ho conosciuto persone con percorsi totalmente diversi dal mio. Ѐ curioso vedere come si arriva allo stesso punto da punti di partenza differenti. Ho capito che non esistono scelte scontate.
D: La cucina è molto trasversale…
R: Ho incontrato casalinghe che cercavano un passatempo, ragazze che volevano una concreta possibilità lavorativa e persone che venivano da periodi molto difficili e cercavano di riprendere in mano la propria vita, partendo da una piccola cosa come un corso di pasticceria. Oppure c’erano mamme che sentivano nuovamente il bisogno di uno spazio esclusivo per sé. Il valore aggiunto è stato l’essere tutte donne perché la cooperativa ha come scopo sociale l’inserimento della figura femminile nel mondo del lavoro, con corsi che riguardano diversi settori.
D: Quando hai capito di essere brava?
R: Ho capito di poter dire la mia quando le persone che assaggiavano i miei dolci mi domandavano stupite: “Ah, ma quindi il pan di Spagna lo hai fatto tu?” Ho realizzato di dare per semplici e scontate delle cose che per il resto del mondo evidentemente non lo erano: molti sono abituati a comprare le basi per dolci al supermercato, anche se fatte in casa sono molto più buone! Insomma, mi piace vincere facile!
D: Come concili le due attività?
R: Senza sforzo: amo cucinare. Torno a casa verso le nove di sera e sono capace di mettermi ai fornelli fino alle due del mattino. Le mie coinquiline tornano di notte dalle loro uscite e mi trovano in cucina. All’inizio mi prendevano per pazza, ora non si stupiscono più…La pasticceria mi rilassa, è la mia dimensione oltre il lavoro, perché il lavoro a volte non ce l’hai, a volte va bene, a volte va male, a volte…vuoi cambiare lavoro! Poi comunque è stata l’occasione per fare esperienze insolite, come tenere una lezione di biscotti con i bambini dell’oratorio di un paesino qui vicino.
D: Perché commissionare una torta a te e non a una pasticceria?
R: Credo che i miei dolci abbiano un gusto più genuino, più vero: non mi piace quello standardizzato e un po’ “senz’anima” di certe pasticcerie che propongono creme gonfiate e insapori, coloranti improbabili o l’uso eccessivo della spugnatura alcolica, che ho scoperto molte persone detestano. Non mi attrae neanche l’uso eccessivo della pasta zucchero per creare torte spettacolari alla “Boss delle torte”. Per me è come lavorare col Didò: è bello, divertente, ma non è saper cucinare!
E poi faccio esattamente la torta che vuoi tu…! Adoro quando una persona mi chiede una torta e mi racconta il motivo per cui la desidera in un certo modo e per chi è: dietro ogni torta c’è una storia! Ѐ interessante ed è …una responsabilità! (ride, ndr)
D: Hai una figura professionale di riferimento, nonna Papera a parte?
R: Tu scherzi, ma i miei idoli sono i due fondatori di Grom! Vorrei incontrarli!
Sono partiti dall’idea di realizzare gelati artigianali con materie prime biologiche e provenienti da presidi Slow Food. Non sapevano quasi nulla di gelato, ma erano mossi da un’idea e, lavorando anche di notte, hanno creato un’azienda solida e conosciuta anche all’estero. Non era detto ce la facessero.
D: Cioè, mi stai dicendo che il Signor Grom non è un simpatico vecchietto con la barba bianca e un morbido pancione?
R: Esatto! Uno, Guido Martinetti, lavorava come enologo nell’azienda di famiglia, l’altro, Federico Grom, era analista finanziario. E quando hanno cominciato, nel 2003, erano entrambi under trenta.
Vedi, a me piace la gente che cambia idea, ma non stupidamente: mi piacciono le persone adattabili, flessibili, che pensano che le strade non siano blindate.
D: Ti sei mai detta “Mollo tutto e apro una pasticceria?”
R: Non ho mai pensato a un colpo di testa, anche perché il mio lavoro mi piace. Però credo realisticamente che, in un futuro, potrò fare qualcosa di gratificante col mio diploma. Si può collaborare con pasticcerie, wedding planners, organizzatori di eventi in generale o si può diventare chef a domicilio, preparando a casa dei propri clienti torte su misura.
D: Sei velocissima a impastare! La frolla sembra buonissima…
R: Credo nella rivalutazione del lavoro manuale, mi piace sporcarmi le mani.
Ci hanno insegnato che ci sono mestieri che vale la pena di fare, che sono più nobili e prestigiosi e altri quasi sminuenti. Non è così: il vero artigiano dietro il suo prodotto mette un progetto. Un conto è la catena di montaggio, un altro è curare un progetto dall’inizio alla fine.
D: La pasticciera mangerà pure qualche torta! Qual è la tua preferita?
R: Bella domanda…Non ne mangio tantissime, ma la mia preferita rimane la Sacher: è il dolce che mi ha insegnato il mio papà e con cui festeggiamo tutti i compleanni e gli onomastici in famiglia!
Ѐ buio su Milano quando esco da casa di Aida stringendo fra le mani il suo bigliettino da visita, un delizioso cartoncino a forma di muffin con su scritto “In caso di torta”.
Forse il suo entusiasmo è contagioso, perché mi sento immotivatamente fiduciosa.
Anche se non ho ancora capito una cosa: ma sulle cellule dendritiche ci va la panna?
Valentina Fumo