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Due Novembre: usanze e riti milanesi e lombardi

Due Novembre, commemorazione dei defunti (usanze e riti milanesi e lombardi)monumentale1

Tra poco meno di quindici giorni ricorre, per la cristianità, la commemorazione, e non la festa, dei defunti. Metto da parte le ridicole e mascherate esibizioni legate all’americanata di Halloween, che nulla hanno a che fare con questa indicativa e “sacra” ricorrenza. L’usanza più osservata è quella di portare fiori e accendere un lumino sulla tomba del proprio caro, unitamente, per i più religiosi, il fare dire una Santa Messa pro defunto.

Il portare fiori è una ritualità universale, il fiore rappresenta un gesto di amore, di tenerezza, inoltre non va dimenticato il significato simbolico di alcuni fiori che divengono, per l’occasione, rituali. Il più noto è il Crisantemo che, contrariamente a quanto comunemente si pensa, non è il fiore della morte, ma della vita, ovviamente di quella ultraterrena. Altro fiore è la Rosa, che già nell’antica Roma veniva a ornare le tombe, anche il Garofano è spesso presente sulle tombe. Per i più sensibili anche il colore ha la sua importanza. Il lumino acceso rappresenta, con la sua fiammella, per il defunto, la speranza di rivedere finalmente una nuova luce.

Di storie e leggende sui morti ve ne sono molte, ogni regione italiana ha i propri racconti, originati in tempi passati e a credenze che trovano ragione soprattutto nella vita contadina, legata ai ritmi e alle stagioni di madre natura, e retaggio di un paganesimo mai sopito del tutto. Tuttavia anche le città, Milano inclusa, avevano le proprie fantasie, che spesso erano narrate ai bambini, soprattutto da parte dei nonni. Una narratami da mia nonna, era quella che la sera del primo novembre, a mezzanotte, si doveva mettere un vaso di acqua fresca, in cucina o sulla finestra, che serviva per far dissetare i morti che in quella notte ritornavano a visitare la propria casa.

A Bormio invece si svuotava una zucca e si riempiva di vino, che i morti, di passaggio, avrebbero volentieri gradito. Nel cremonese invece, si doveva preparare uno o più letti, pronti per accogliere il defunto che ritorna in visita e permettergli di riposare prima di ripartire. In altri luoghi il letto era lasciato disfatto.

Noto è anche il racconto che nella notte tra il primo e il due novembre, i morti, uscendo dai cimiteri, formino una lunga processione, chi li dovesse vedere non li può assolutamente toccare, neppure se trattasi di un proprio caro. Nella processione i morti pare seguano un ordine preciso, davanti coloro che sono morti di morte naturale, poi i giustiziati, poi chi è morto per incidente, indi quelli morti in maniera repentina, insomma, un lungo elenco che cataloga i vari modi di morire.

Nelle campagne era uso seminare, per devozione, un po’ di grano. Un altro alimento che trova uso nel culto dei morti è la Fava. Questo legume, in tempi passati, era consumato come piatto principale nei banchetti funebri, il cristianesimo lo fece divenire cibo da consumare nei monasteri durante le veglie per la Commemorazione dei defunti.

Anche l’arte dolciaria ha voluto ricavare un proprio spazio, ed ecco così nascere, in ogni regione italiana, dei dolci abbinati alla ricorrenza del due novembre. Ricordo che nella nostra Milano si può gustare il Pan de mej, antica ricetta che però era nata per festeggiare San Giorgio, poi trasportata alla celebrazione dei defunti. Altro dolce lombardo è il Pan dei Morti, che deve essere preparato alcuni giorni prima. Altro dolcetto, questa volta del cremonese, sono le ossa dei morti, che, a parte il nome un po’ macabro, sono ottimi. In Lombardia altro dolce sono le fave dei morti, o fave dolci, a volte colorate di verde per farle assomigliare a quelle vere.

Desidero terminare l’articolo con un verso della poesia, in dialetto meneghino, che il poeta Tommaso Grossi ha dedicato allo scomparso Carlo Porta, e con alcune parole che avevo letto, ormai trent’anni fa, nella nostra Milano e di cui non ricordo l’ubicazione, che, poste sopra una nicchia contenente ossa, recitava così:

Noi siamo adesso, quel che voi sarete un dì.

Chi si scorda di noi, scorda se stesso.

Ed ecco ora la strofa di poesia.

Se sent ona campana de lontan…

L’è a San Babila… Sonna on’angonia,

pensi… el compiss giust i duu mès doman

che hoo vist a Sant Gregori a mettel via;

l’è come incoeu, de st’ora chi o pocch de pù,

che sta campanna l’ha sonaa per lù.

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