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Racconto di un pomeriggio estivo a Milano

Mentre i forzati del lavoro anche d'estate spingono al massimo i motori io continuo con passo lento il mio allucinato viaggio sorda e cieca per non rischiare di perdere quello che mi sta a cuore.

Il sabato pomeriggio a Milano con 40° è, per pochi coraggiosi, la miglior scuola. Non c'è alcun bisogno di frequentare biblioteche o musei, la letteratura e l'arte sono dietro ogni angolo, appoggiate al tavolino di un bar, sdraiate in un giardino all'ombra delle siringhe.

Si incontrano quelli che non hanno la seconda casa per trascorrere il week-end e spesso nemmeno la prima o i milanesi d.o.c., pochi, rari, quelli che escono dopo il tramonto.

E poi ci sono io che amo disperatamente Milano anche a Ferragosto e posso permettermelo perché ho una rarissima allergia che mi procura iperventilazione per cui respiro meglio dove c'è una discreta quantità di anidride carbonica. Io sono a mio agio fra quelli che non hanno nemmeno la prima casa, probabilmente perché non l'ho nemmeno io. Imparo molte cose, la strada è stata la mia università e la frequento da quando ero alta un piede. Lo dico sempre con orgoglio: sono una donna di strada e se qualcuno fraintende peggio per lui.

Oggi ero in Corso di Porta Vittoria, seduta al tavolino di un bar con Fidel appeso al collo.
Devo fare una premessa che mi renderà ancora più antipatica, ma in questo periodo "spiacere è il mio piacere" per cui non mi faccio problemi. Sono una che intercetta tutto, sarei stata un magistrato anti Berlusconi perfetto e avrei beccato tutti i ricchi imbroglioni con le mani nella marmellata. Mi piace ascoltare i discorsi degli altri; spiare la vita delle persone mi accomuna al protagonista pirandelliano de "L'uomo dal fiore in bocca"; lo faccio perché poi ho qualcosa su cui riflettere e posso tranquillamente fare a meno di TV e giornali; tutto quel che mi serve mi scorre davanti agli occhi.

Torniamo dunque al tavolino dove accanto a me era seduto un signore di una certa età, un avvocato, l'ho appreso poi, e parlava del figlio volontario in Iraq. Non volontario con in mano il mitra, volontario senza mimetica, armato di amore e incoscienza, l'incoscienza di chi ama e per giunta senza meriti, perché sa fare solo quella cosa lì.
Non torna in Italia da sei anni e gli si incrina la voce quando ne parla, non ne ricorda quasi più il viso, sussurra; sta per cedere, ma poi ha uno scatto di orgoglio: va bene così, dice a voce alta, lui sta bene così anche se lo studio di prestigio resterà chiuso; il barista gli appoggia una mano sulla spalla, lui si calma e si accende il sigaro per darsi un tono.

Come dal nulla, dall'asfalto rovente del marciapiede dove i tacchi delle scarpe lasciano l'impronta, prende forma un uomo di colore non più giovanissimo, alto come un watusso con qualche ciondolo in mano, ma ben vestito, l'aria sveglia e il passo deciso di uno che sa di essere in regola.
L'avvocato lo saluta, gli dà del tu, lo chiama Abdou (si chiamano tutti così), gli mette in mano una banconota di piccolo taglio e ordina per lui un bicchiere di latte fresco.

Abdou è allegro, fra poco partirà per Foggia dove andrà a raccogliere pomodori ed è soddisfatto perché lo trattano bene, lavorerà dalle 7,30 di mattina alle 18,30 e avrà un buon compenso. Cosa chiedere di più dalla vita?

Nuovi avventori si sono accomodati ai tavolini del bar: una coppia, un ragazzo con un trolley grande come un armadio.
Ho finito di sorseggiare il mio the, l'avvocato si alza e si allontana, accenna un saluto a cui rispondo volentieri.
Abdou più in là conta il guadagno della giornata in attesa di partire per Foggia.

Per un momento intuisco il senso delle cose, è un attimo e la solitudine si è affollata di pensieri al momento ancora sconnessi; più tardi, a tarda sera prenderanno forma.
Sono ricca, penso, anche oggi ho vinto alla lotteria.

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