Gli scioperi di Sesto, sulle tracce dei deportati politici
Storie di operai ridotti alla fame, ondate di scioperi che culminarono con la grande astensione dal lavoro dall'1 all'8 marzo 1944, storie di deportati politici mandati nei campi di lavoro forzati, ricordi di "te se un Muathausen": questo è il bagaglio culturale di Sesto San Giovanni, l'area industriale più grande della Lombardia.
Zona "rossa" per eccellenza, durante la seconda guerra mondiale Sesto fu il teatro di organizzazioni clandestine che richiedevano maggiori diritti per gli operai.
E' incredibile l'altissimo numero di persone che pagò con la vita la richiesta di condizioni lavorative più "umane": furono 563 i deportati politici di Sesto San Giovanni, quasi tutti destinati al campo di concentramento di Mauthausen, circa 230 coloro i quali non tornarono più a casa.
Le storie di uomini e donne dimenticate rivivono oggi grazie all'immensa ricerca di Giuseppe Valota, il quale mi ha concesso una lunga chiacchierata per scoprire la storia del comune di Sesto San Giovanni durante gli anni della seconda guerra mondiale.
Giuseppe Valota è il presidente dell'A.N.E.D di Sesto San Giovanni e figlio di Guido, uno dei tanti deportati che perse la vita nel 1945.
Dell'anno degli scioperi, Giuseppe non ricorda molto: aveva solo 5 anni ed era stato mandato al sicuro dagli zii; la notte in cui arrestarono suo padre, c'erano solo sua madre e suo fratello di 11 anni, in casa. Ricorda però le bombe e le corse per rifugiarsi sotto terra, per sfuggire ai boati: sembrava di fare la fine dei topi. E ricorda anche la fame, dato che l'economia era ormai al collasso.
Gli abitanti di Sesto San Giovanni non avevano mai gradito il fascismo: fino alla fine del 1800, tutta l'area era prevalentemente agricola. Le grandi aziende si svilupparono come conseguenza della costruzione della linea ferroviaria Milano-Monza; in poco tempo Sesto diventò un enorme polo industriale: la Breda, la Falck, la Pirelli e la Marelli erano le fabbriche più imponenti, in cui avevano trovato lavoro circa 55.000 operai.
Erano industrie pesanti: negli anni precedenti la guerra, si producevano tutti i beni che servivano alla società, dai mezzi di trasporto ai ventilatori, dalle gomme delle biciclette alle radio.
Poi, con la guerra, tutto cambiò: le industrie di Sesto furono militarizzate e la produzione diventò tutta dedicata al materiale bellico. Gli operai si videro costretti a fare molte ore di lavoro in più, la paga era più bassa e il cibo che, settimanalmente, era distribuito diventava sempre meno. Il malcontento era sempre più alto, tanto più che a Sesto San Giovanni il fascismo non era mai stato visto con simpatia.
"Non ne potevamo più" racconta Beppe Carrà, un lavoratore della Breda, all'epoca dei fatti diciottenne e membro del Comitato segreto di agitazione, "della guerra, del formaggio (Il formaggio Roma, di pessima qualità, ndr), di tutto il resto, e decidemmo di organizzare una protesta; ma lucidamente, non fu solo un moto di rabbia. Il clima, fuori, era cupo. All'ombra dei tedeschi, a Milano imperversavano gli uomini della Muti, per lo più criminali liberati dalle galere e arruolati nell'esercito di Salò".
Così, dopo i primi scioperi scoppiati spontaneamente in tutto il Nord Italia tra la metà e la fine del 1943, i Comitati segreti di agitazione decisero di indire uno sciopero generale organizzato. Il motto era "Non un uomo né una macchina in Germania!": fermare la produzione di materiale bellico significava porre fine alla guerra.
Così, il primo marzo 1944, quando le sirene delle fabbriche suonarono, come di consueto, alle 10, gli operai spensero i macchinari e la produzione in tutta la zona industriale di Sesto San Giovanni cessò: iniziò così lo sciopero bianco che durò fino all'8 marzo. A loro si unirono i lavoratori dei trasporti e gli operai di tutta l'Italia del Nord, paralizzando di fatto l'intera economia bellica.
Prima di iniziare, però, era stato necessario spiegare la parola "sciopero" a tanti ragazzi sotto i vent'anni: avendo vissuto solo sotto il fascismo, era un concetto di cui non sapevano dell'esistenza.
I tedeschi pensarono di prendere gli operai per fame, alzando le serrate davanti alle fabbriche. I manifestanti resistettero per 8 giorni, poi tutto tornò alla normalità. Seguirono ondate di arresti e deportazioni, molti dei prigionieri politici morirono nel campo di Mauthausen, chi sfuggì andò a unirsi alla lotta partigiana sulle montagne, tanto da far guadagnare a Sesto San Giovanni la medaglia d'oro al valore.
A chi tornò vivo dai quei campi, magro e malato, veniva detto "Te se un Mauthausen", un modo di dire che si usò ancora per tamto tempo a Sesto San Giovanni, a rimarcare forse quanto il trauma di quella guerra sia stato grande.
"Sotto il profilo pratico" racconta ancora Carrà, "Lo sciopero non diede nulla, è vero. Ma dal punto di vista politico ebbe un'importanza enorme. L'eco fu davvero grande, ne parlò tutta Europa."
Storie invece che, oggi, sono andate dimenticate non solo in Europa, ma anche in Italia, a Milano, dove vivono i figli di queste vittime dimenticate della guerra, che avevano provato a rivendicare i propri diritti, nonostante la presenza dei nazi-fascisti.
Storie che quest'anno, a settant'anni da quei fatti, sono state ricordate a Sesto per la prima volta, segno che la memoria di un popolo, di un quartiere, di una famiglia, può rimanere nascosta, ma i ricordi riaffiorano sempre nei posteri.