Milano con le gambe aperte
C'è una bella canzone di Paoli e Ricky Gianco intitolata "Parigi con le gambe aperte".
Potremmo dire lo stesso di Milano, un tempo fulgida signora e oggi disfatta puttana che si trascina stanca nei viali.
Milano con le gambe aperte un tempo da cui fluiva linfa vitale, buco cieco spalancato oggi che divora immondizia.
Milano dei teatri, di Gaber e Jannacci, di Vincenzina e le fabbriche con gli operai orgogliosi della tuta indossata come simbolo di appartenenza ad una razza pura e forte, dei locali affacciati sui navigli, dei giardini incantati di via Del Gesù e Della Spiga, delle sale da the tappezzate di arazzi, delle luci a San Siro, della nebbiolina come rugiada umida sul selciato, della casa del Manzoni per uno scherzo del destino ad un passo dal palazzo dei Ferruzzi.
Milano del lusso ostentato, dei buttafuori di colore in divisa che aprono la porta dello store perché la damazza americana o tedesca vi entri comoda e faccia razzia di obbrobri costosi, dell'osceno luccicare di orpelli a violentare la bellezza della facciata del palazzo, degli intarsi nascosti dai cascami.
Milano con le gambe aperte gratis, alla portata di tutti, svenduta ai migliori offerenti, Milano dal Palazzo di Giustizia in disuso, delle lapidi in memoria degli anni più bui, città senza angoli oscuri ma piena di segreti, Milano degli affari e dei papponi, con i calciatori in mutande sui palazzi e il ricordo struggente di Gianni Brera che oggi avrebbe sputato sul derby.
Milano dei vicoli e del Cenacolo, delle cene dei nuovi padroni, sempre più lerci, sempre più ignoranti; Milano che muore di noia, che arranca fra bancarelle e suonatori suonati lungo il Corso, Milano che piange quando si specchia nelle pozze d'acqua marce di smog.
Milano che aspetta che cali il sipario sul suo corpo sfatto, sul cerone dell'ultimo spettacolo, Milano ferita, umiliata che chiude le gambe.
Milano che non c'è più.