La Fossa interna dei Navigli
«Un fossato di sorprendente bellezza e larghezza circonda questa città da ogni parte e contiene non una palude o uno stagno putrido, ma l’acqua viva delle fonti, popolata di pesci e di gamberi. Esso corre tra un terrapieno all’interno e un mirabile muro all’esterno, il cui circuito, misurato con estrema accuratezza, è risultato corrispondere a diecimilacentoquarantuno cubiti. La larghezza del fossato, lungo l’intero circuito intorno alla città, è di trentotto cubiti. Al di là del muro del fossato vi sono abitazioni suburbane tanto numerose che basterebbero da sole a formare una città».
Così scriveva nel 1288 Bonvesin de la Riva, di cui citiamo il testo tradotto in italiano dall'originale latino. Il «fossato» con tanta ammirazione descritto dal dotto frate degli Umiliati, altro non era che la cerchia interna del Naviglio milanese, almeno così come si presentava negli anni alla fine del XIII secolo.
All’epoca, il Naviglio interno di Milano aveva già oltre cento anni se è vero, come ammettono tutti gli storici, che i primi lavori furono cominciati intorno al 1156 da Guglielmo da Guintellino, ingegnere militare di probabile origine genovese. Guintellino, che fu al servizio di Milano dal 1156 al 1162, non costruiva solo fossati ma anche ponti e macchine da guerra; nel conflitto fra Milano e l’imperatore Federico I, il Barbarossa, occupava una posizione di primo piano. Quasi certamente gli era stata affidata tutta la parte tecnica della guerra.
Canali scavati dall’opera dell’uomo per l’irrigazione e anche la navigazione esistevano già a quei tempi e la loro origine è incerta. Facevano capo per lo più agli operosi monaci dell’Abbazia di Chiaravalle, oppure a quelli di Abbazia di Morimondo e di Cerreto, ma è probabile fossero nati prima del Medioevo. Già in epoca romana dovevano essere stati ricavati canali dal Seveso, dal Nirone e dall’Olona, che portavano le acque nei fossati della città.
La Vettabbia poi rappresentava forse una via d’acqua navigabile tra Milano e il Po, almeno a cominciare dalla fine della repubblica a tutto l’impero. Canali, navigabili o da irrigazione e, in genere, opere di regolazione delle acque dovevano essere presenti nel territorio milanese anche in epoca preromana, ai tempi dell’occupazione gallica. Relativamente lontana quindi da corsi d’acqua naturali, al contrario delle principali città europee, Milano ricorse fin dalle lontane origini alla canalizzazione artificiale; risolvendo così non pochi dei problemi relativi alla difesa, ai traffici commerciali e all’irrigazione delle campagne.
Il fossato fatto costruire da Guglielmo da Guintellino doveva rispondere ai canoni più esatti dell’arte militare del tempo, se il primo pensiero dell’imperatore Barbarossa, una volta presa Milano, fu di distruggerlo. Nel 1158, l’imperatore aveva espressamente indicato in una clausola dei patti di resa l’interramento dei canali. Quattro anni più tardi, distruggendo Milano distruggeva anche la rete dei canali interni.
I milanesi però, una volta allontanatosi il pericolo imperiale e diciamo prima ancora che si fosse allontanato del tutto, ricostruirono immediatamente il Naviglio. Cominciati nel 1167, i lavori durarono molti anni con l’approfondimento e l’allargamento del fossato e l’erezione di porte in pietra, e di torri, fra le quali famose quelle dell’Imperatore presso la Chiusa della Vettabbia, torre rifatta poi nel 1338 e distrutta definitivamente nel 1778.
Nato quindi per necessità difensiva, questo fossato che cingeva la città fu ben presto usato anche per qualche opera d’irrigazione. La sua terza funzione, di Naviglio vero e proprio, cioè di canale navigabile, fu raggiunta pienamente soltanto circa tre secoli dopo nel 1496, quand’era signore di Milano Ludovico il Moro. Per esigenze dei governanti e militari, vari tratti erano già navigabili in tempi precedenti, probabilmente dall’epoca di Filippo Maria Visconti.
Nel 1496, per introdurvi le acque del Naviglio, la rete dei canali interni fu modificata e ampliata. Si è ritenuto per molto tempo che a tali lavori sovrintendesse Leonardo da Vinci, ingegnere e architetto ducale a Milano in quei tempi. Oggi sappiamo che il merito delle novità introdotte (le conche) spetta ad altri.
Dopo tali lavori, il Naviglio cittadino fu diviso in tre bracci: il primo, lungo l’attuale Via Pontaccio, detto Naviglio morto; il secondo, dal ponte di San Marco al ponte degli Olocati, che prenderà più tardi, quando gli Spagnoli circonderanno la città coi Bastioni, il nome di Fossa interna, come era chiamato anche l’intero sistema; il terzo infine, dal ponte degli Olocati (attuale via Ronzoni) al Foro Bonaparte, detto Naviglio di San Gerolamo. Tale suddivisione si mantenne sostanzialmente invariata sino a tutto il secolo XIX.
Il nome di Fossa interna è usato da tutti e da molti secoli e deriva probabilmente dalla sua prima origine militare.
Nel complesso la larghezza dei canali variava dagli otto ai dodici metri, con uno sviluppo complessivo in lunghezza di cinque chilometri. Nei bracci del Naviglio morto e della Fossa interna le acque scendevano verso il ponte degli Olocati, dove si riunivano con quelle del Naviglio di San Gerolamo, che avevano pendenza opposta. Dal ponte degli Olocati, le acque fluivano verso il Tombone di Via Arena.
La Darsena di Porta Ticinese fu per moltissimo tempo, e virtualmente lo è ancora, il porto di Milano. Qui terminavano i Navigli Grande e Pavese, ed è facile immaginarlo in altre epoche fervido di traffici. Ancora qualche anno fa era notevole il movimento dei barconi carichi di sabbia e di ghiaia. Oggi appare come un tranquillo laghetto con pazienti pescatori appollaiati sulle rive, un angolo di pace fra il traffico milanese che le vortica intorno. Le è rimasto però l’aspetto del porto e, pur ferma nelle sue attività, la Darsena non ha l’aria di abbandono che caratterizza altri punti dei Navigli milanesi.
I canali cittadini rimasero per secoli senza protezione delle strade, per cui frequenti erano le cadute in acqua di incauti passanti o di ubriachi, specialmente quando le nebbie fasciavano la città.
A risolvere il problema fu il governatore Colloredo nel 1725: il Naviglio ebbe così il suo parapetto, colonnine di sasso unite da sbarre in ferro, e tutti i cronisti del tempo e i cittadini lodavano ad alta voce i bravi amministratori che finalmente avevano posto rimedio a un secolare inconveniente. Non proprio tutti: i proprietari delle case che si affacciavano sui canali e sui quali ricadde la spesa dei nuovi lavori, non si unirono di certo al coro plaudente.
Ma il problema più grave della cerchia dei Navigli propriamente milanesi fu rappresentato, in molti secoli, dal suo spurgo. Lo testimoniano, fin dall’ottobre 1411, una serie di lettere ducali. Dove si ordina lo spurgo dei canali, il Naviglio della Martesana non s’immetteva ancora nel complesso cittadino, e si carica la relativa spesa sui possessori dei prati irrigati e dei mulini e su coloro che in diversi modi risentono vantaggio e percepiscono emolumento dalle acque suddette.
Altre lettere ducali dell’ottobre 1496 stabiliscono in quale misura debbano contribuire alle spese di spurgo i cittadini interessati: «per un quinto quelli che hanno piane e sostre in detta fossa; per un quinto quelli che godono dell’acqua con molino; per un quinto quelli che hanno condotti e tartane; e finalmente due quinti quelli che irrigano prati».
L’introduzione delle acque della Martesana sembrò dar sollievo al problema (1457); ma gli abusi degli utenti, lo rimettevano regolarmente in primo piano. Nel 1574 lo spagnolo De Luna, allora castellano di Milano, fece deviare le acque del Nirone per meglio azionare i mulini del Castello; tutta la città ne risultò impoverita d’ acqua. Tanto che le autorità milanesi rivolsero direttamente al re di Spagna. E un’epidemia intervenuta nel frattempo fu da tutti imputata all scarsezza di acqua. Fu deciso usufruire di una nuova roggia per portare in città un maggior volume di acque della Martesana.
Alla fine del secolo XVI, un decreto governativo del 13 aprile 1598, ordinava nuove opere per lo spurgo ne caricava le spese sui proprietari delle sostre e delle abitazioni lungo canali, e su coloro che possedevano condotti sfocianti nella fossa. In cambio costoro ricevettero il diritto di in mettervi le acque fluviali e quelle luride.
Numerose sono le testimonianze che attribuiscono il fetore emanati dalla Fossa interna alla scarsità di acque correnti nel canale; e spesso perché gli utenti, nell’irrigare i giardini fornire d’acqua le lavanderie, con mettevano abusi. Ad esempio, le Suore Cappuccine degli Angeli, che posseggono dal 1672 le chiavi della doppiera di San Marco, usavano l’acqua loro piacimento senza curarsi dei regolamenti e delle restrizioni.
Soltanto nel Settecento, con la costituzione della Congregazione della Fossa interna si credette di aver trovato il rimedio a tutti i mali. Ma anche dopo la creazione di quest’organismo, che doveva accentrare tutti i problemi connessi alla cerchia, gli inconvenienti non finirono.
Lo spurgo, infatti, avveniva sempre con un intervallo troppo lungo, a volte diversi anni, e in modo parziale. I proprietari delle case che si affacciavano sui Navigli continuavano a denunciare che «le forti deposizioni del Naviglio procedono da torbide introdotte nello stesso da una banda della città, dalli torrenti Seveso e Lambro, dall’altra dal fiume Olona, e che la minor parte delle materie che ingombrano la fossa, e ne difficoltano la navigazione, sono quelle delle case fiancheggianti la medesima.. Polemiche, istanze, progetti non cessarono nei tempi successivi, e lo stato dei corsi d’acqua all’interno della città continuò a rappresentare motivo di preoccupazione per la salute pubblica.
Scriveva alla fine del secolo XVIII Agostino Geni: «Nelle vaste fosse del Reale Castello di Milano quel Corpo d’acqua, che le bagna, vi si dilata, e dove veggiamo l’acqua semistagnante, e dove stagnante del tutto. Li tristi effetti, che vi produce l’acqua ristagnata, e massime quando dal lezzo delle alghe, e de’ cammuccetti i venti spiranti della quarta di Levante sospingono in aria gli invisibili insetti, che vi si generano, sono troppo noti, e basta vedere nello Spedale militare il numero de’ malati in proporzione della guarnigione, e basta riconoscere quanto le febbri putride infestino le case circostanti al Castello. »
Tratto da: I NAVIGLI MILANESI
Silvana Editoriale - Edizione promossa dalla Provincia di Milano
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