Emilio De Marchi: poeta del sentimento e della terra
Di Emilio De Marchi ebbi già a scrivere in un precedente articolo il cui riferimento però era inerente ai suoi capolavori letterari come ad esempio “il cappello del prete”, questa volta voglio presentarlo in una veste diversa e che attengono la poesia. Tra le sue opere ne voglio ricordare due, una dedicata alla Madonnina del Duomo e che riprendono i versi di Vespasiano Bignami, l’altra dal titolo: “Il Contadino” che è annoverata come cantilena.
Il De Marchi era così appassionato alla poesia che amava dire: “Tu sola, o santa poesia, sei vera”, tanto da fargli scrivere:
Quando verrà quel dì … quel dì, Signore,
che vorrete con voi l’anima mia,
fate che presso al letto del dolore
venga a seder la santa Poesia …
Se devo essere sincero è una richiesta che mi sento di condividere.
La prima poesia che voglio citare è inerente la nostra Madonnina che dal nostro Duomo si eleva sulla nostra sempre indaffarata città. Le strofe dicono così:
O Madonna indorada del Domm,
fina tant che te vedi a lusì
mi stoo ben, sont alegher, foo i tomm.
Ma on moment che no t’abbia pu ti
Sott i oeucc, o Madonna del Domm,
senti on voeuj, g’hoo on magon de no dì.
Sberlusiss, o Madonna del Domm!
Che te veda de nott e de dì! …
Senza ti, Meneghin l’è pu omm …
O Madonna indorada del Domm!
Per chi ha la milanesità nel sangue la Madonnina non passa mai inosservata, anche quando si è lontani dal Duomo si tende sempre a portare lo sguardo verso di Lei. Ditemi voi, cosa sarebbe Milano senza la sua Madonnina?
La cantilena che adesso vi presento è dedicata a quel mestiere del Contadino, che io considero nobile, poiché se non ci fosse il contadino anche i nobili, i ricchi dimagrirebbero in fretta. Racconta così:
Il Contadino
Cantilena
Di nostra vita sparge lentamente
il mesto pan, più caro al ciel che agli uomini,
il contadin paziente.
Al gelo, al sole, al monte, al colle, al piano
si muove egual la bionda spiga a tessere
del contadin la mano.
Quando beati sulla prima aurora
sognano i ricchi nelle piume morbide,
il contadin lavora.
Se avvampa agosto torrido la testa,
a freschi lidi i cittadini emigrano:
il contadino resta.
Se la gragnuola stermina o più rara
fa le messe, Epulone il ciel bestemmia:
il contadin ripara.
Mentre dei campi, alle sfrenate voglie
d’una bella, il signor i frutti spera,
il contadin raccoglie.
Raccoglie e pane e vino e biade e strame
agli uomini e alle bestie e spesso, ah misero!
Il contadino ha fame.
Se di fortuna cangia la bandiera,
fatti feroci i fortunati stridono:
il contadino spera.
Mentre Dio la provvidenza nega
Sardanapalo in suo supremo orgoglio,
il contadino prega.
Per molte vie tu ville a te procacci,
o tesorier, ma non avanza fabbriche
il contadin né stracci.
Quando sente d’aver compiute l’ore
di sua giornata, all’ospedal si strascica
il contadino e muore.
Han sulle fosse i re della fortuna
Croci di marmo, di bronzo, di porfido:
il contadino nessuna.
Il nome Sardanapalo si riferisce a un potente, molto ricco e effeminato re dell’Assiria favoleggiato dai Greci in una leggenda, citata da Diodoro, Eusebio e altri.
Questa descrizione fatta in questa cantilena mi pare che descriva piuttosto verosimilmente la vita, in quel tempo ancora più difficile, del contadino. Un tempo veniva chiamato contadino chi abitava il contado, ossia il territorio intorno alla città, in opposizione a cittadino. Il termine poi è passato a indicare chi lavora la terra, chi pratica l’agricoltura. E pensare che c’è chi si vergogna nell’affermare che discende da una famiglia di contadini, che poi, a voler ben guardare sono, anzi siamo la maggioranza.
Voglio concludere con quel proverbio, da tutti conosciuto che recita così:
“Al contadino non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere”.
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