Mia nonna era una mondina
Ieri era domenica e, come capita ogni tanto, ci si ritrova anche con parenti, attorno a una tavola per consumare, in compagnia, un appetitoso pranzetto.
Parlando del più e del meno il discorso è finito sul lavoro delle mondine, venendo così a conoscenza che una delle mie nonne e alcune mie parenti prossime hanno svolto quel faticoso lavoro nelle risaie della Lomellina e del Vercellese. Devo dire che il discorso non mi ha lasciato indifferente e così eccomi a fare un articolo proprio dedicato a tutte quelle donne che hanno, col sudore della fronte, guadagnato il pane per se e per la propria famiglia.
Quante saranno state le donne che hanno svolto quest’attività? Probabilmente migliaia che, spinte da una necessità economica, partivano dal loro paese tra maggio e giugno per raggiungere le risaie. Quando si avvicinava il periodo, nei paesi già iniziava un certo fermento, mondine già “di ruolo”, usiamo questo termine, erano sicure di trovare il posto, altre, “nuove”, cercavano chi le poteva raccomandare oppure partivano sperando di essere assunte. Era però di prassi iscriversi all’Ufficio di Collocamento e sottoporsi a una visita medica.
Bagaglio, lo stretto necessario; non mancava un vestito per la festa, biancheria intima, calzoni corti, foulard e cappello di paglia, calze a rete senza il piede, per ripararsi dalle fastidiose punture di tafani e di zanzare, qualche scorta alimentare come del buon formaggio casereccio e, a volte, qualcuna si portava anche un pagliericcio. Il ritrovo spesso avveniva alla Stazione Centrale di Milano, moltissime erano quelle che scendevano dalle valli montane, come la Valle Camonica, per ritrovarsi alla Stazione di Brescia, o dalla bergamasca, dalla Valtellina, dal comasco e altre località lombarde, e da lì raggiungere Milano.
Giunte in Centrale le donne consumavano una fugace colazione, e smistate per le varie tenute. Una tradotta le portava poi alla stazione più vicina alla località di destinazione dove, un camion e, è capitato, un carro, li conduceva alla fattoria. Bisogna dire che alla partenza moltissime avevano già in mano un contratto regolare. Giunte alla cascina, erano portate in un grande stanzone, dove erano state sistemate delle brandine con della paglia e, ognuna, dopo avere occupato un posto, si preparava il proprio giaciglio. Nel gruppo vi era la figura della Prima Mondina e della Cuoca, che aveva ovviamente il compito di preparare i pasti per tutte.
La paga era calcolata in giornate lavorative poi, oltre al pagamento in denaro era stata aggiunta, forse però non da tutti, la corresponsione di tanti chili di riso secondo i giorni di permanenza. Inutile dire che il momento della paga creava un’emozione di gioia, finalmente il sudato e sospirato salario! Ogni mondina era chiamata per nome e, avvicinatasi al pagatore riceveva il compenso in base alle ore segnate dal “caposquadra” o dalla “prima mondina”.
La sveglia era al canto del gallo, e alle cinque si doveva essere nei campi, con i piedi ammollo e la schiena curva, per tutto il santo giorno. La colazione consisteva in un po’ di pane con del latte, poi, alle nove era prevista una breve sosta, dove era portata dell’acqua da bere e un pezzo di pane. A mezzogiorno il pranzo, consumato sugli argini dei fossi, cercando un po’ di salutare ombra. I servizi igienici lo fornivano i prati e i cespugli e, per la toilette, la fresca acqua del fossato o quella della fontana a pompa. Terminato il pranzo, ancora gambe in acqua, sole impietoso sulle curve schiene, punture d’insetti irrispettosi e maleducati e un odore nauseante di marcio che l’acquitrino, riscaldato dal sole, faceva salire alle nari delle mondine, così per un lavoro che durava dodici ore.
A volte bisognava lavorare anche di domenica, almeno per mezza giornata. Spesso la sera, o nelle giornate di festa, si ballava e si cantava, probabilmente per dimenticare la fatica che il giorno dopo attendeva impietosa. Il termine mondine, viene dal verbo mondare, ossia pulire.
La cultura popolare ha dedicato a queste donne lavoratrici molte canzoni, ne ricordo qui alcune:
Amore mio non piangere.
E la partenza per me la s’avvicina.
Filì drit sui marciapè.
L’amarezza delle mondine.
Noi vogliamo l’uguaglianza.
O macchinista getta carbone.
Quaranta giorni che dormo sulla paglia.
Sciur padrun da li beli braghi bianchi.
Una sera di settembre.
Molte altre ve ne sono che raccontano la faticosa vita di donne coraggiose che, per amore della famiglia e dei figli, si sono sacrificate per guadagnare quel poco per poter tirare avanti e passare l’inverno. Anche la cinematografia ha reso omaggio alle mondine, ricordo il film “Riso amaro”, del regista De Santis, con Silvana Mangano, e “La Risaia”, di R. Mattarazzo. Pure la poesia non ha mancato di cantare queste lavoratrici.
Penso che queste donne meritassero, da parte dello Stato, e della società tutta, un riconoscimento per il loro sacrificio, per il loro forte senso di responsabilità verso la famiglia, i figli e il lavoro e, mi si consenta questo libero pensiero, anche le casalinghe, soprattutto con figli, avrebbero diritto a ricevere uno stipendio, in quanto il loro è un vero e proprio lavoro che va a vantaggio anche della società tutta, senza contare le tante ore che sono impegnate.
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